Intervista al generale Angiolo Pellegrini
Palermo, gennaio 1981. Il capitano Angiolo Pellegrini assume il comando della sezione Anticrimine dell’Arma dei carabinieri. E’ un ruolo scomodo e un periodo molto difficile. In quest’intervista il generale Pellegrini racconta la nascita del libro Noi, gli uomini di Falcone.
Perché ha deciso di scrivere questo libro?
Ho voluto scrivere questo libro per ricordare le vittime della mafia, le tante persone che si sono sacrificate per lo Stato e le istituzioni, eppure sono state rapidamente dimenticate. L’ho scritto soprattutto pensando ai ragazzi, che conoscono così poco della storia recente d’Italia.
Poi, via via che raccoglievo il materiale e ripercorrevo gli eventi, ho avuto la sensazione che dietro quello che è successo – e ancora di più, quello che non è potuto succedere – ci potesse essere una mente sottile. Non mi riferisco ai corleonesi, ma a qualcuno di più sfuggente, che ha fatto naufragare le attività avviate da Giovanni Falcone. Questo qualcuno, prima, ha eliminato o allontanato tutti i suoi collaboratori più fidati, sostituendoli con persone che non sempre erano all’altezza. E poi ci fu l’evidente tentativo di delegittimazione dello stesso Falcone: il fallito attentato all’Addaura, gli anonimi del corvo, la mancata elezione a capo dell’ufficio istruzione, per cui il pool fu gradualmente smantellato. Venne poi ricostituito, sì, ma ormai il danno era stato fatto. Non può essere tutto attribuito al caso!
Come ha pagato il suo personale impegno contro la mafia?
In tanti modi: rinunciando alla tranquillità, allontanando la mia famiglia per non esporla, prendendo e imponendo costanti (quasi maniacali) precauzioni. Che però a qualcosa sono servite, visto che oggi sono qui a raccontarle e che nessuno dei miei uomini ha mai subito danni. Il pericolo maggiore probabilmente l’ho corso una sera, uscito dalla questura. Ero fermo a un semaforo e ho visto spuntare dal nulla una moto blu, con due uomini. Non vedevo i visi, coperti dal casco, ma ho avuto subito la sensazione che fossero lì per me. Ho accelerato e sono partito a tavoletta, lasciandoli dietro. Anni dopo ho avuto conferma che quello era un attentato bello e buono. Me l’ha detto Angelo Siino, uno degli uomini di Riina, che quella volta volevano uccidere, come avrebbero ucciso poi Ninni Cassarà. Non ci sono riusciti, e poco dopo sono stato allontanato da Palermo. Neppure questo può essere un caso.
Ma esiste anche un prezzo, meno evidente e forse più alto, che si paga ogni giorno. Una persona in prima linea deve indurire il cuore, mettere a tacere i sentimenti, perché altrimenti, di fronte alla morte di colleghi, che spesso sono anche amici, e al rischio che si corre ogni ora, la tentazione di rinunciare è fortissima. Invece bisogna resistere.
Qual è l’insegnamento più importante che le ha trasmesso Falcone?
L’onestà assoluta di uomo e giudice. Di qualunque indagine si trattasse, Falcone la conduceva con estremo rigore e serietà, senza travalicare, senza inventare, e rimetteva il giudizio alla corte. Dovevano essere i documenti e le prove a parlare, non le sue convinzioni. Questa onestà morale e intellettuale l’ho sempre portata con me.
In gallery le foto della presentazione del libro Noi, gli uomini di Falcone svoltasi a Roma domenica 15 marzo 2015 con la partecipazione di Don Ciotti e Attilio Bolzoni.