Trentuno metri quadrati. È stata questa, per mesi, la misura dell'ossessione di Riccardo, lo spazio fisico e mentale in cui ha inseguito, notte dopo notte, il suo sogno: scrivere una sceneggiatura capace di attirare le attenzioni di un produttore cinematografico.
E ora che osserva i campi e gli alberi e le case confondersi sul finestrino di un treno diretto a Venezia, dove assisterà alla prima del film nato dalle sue parole, Riccardo ha paura. Ha paura di buttare lo sguardo davanti a sé, verso il futuro che mille volte ha provato a immaginare. E ancora di più, ha paura di voltarsi, ripensare a quello che è stato.
Perché ripercorrere gli ultimi anni della sua vita significa rivedere Laura in quel vecchio cinema di Milano; sentire sulla pelle il brivido di quei primi sguardi che si cercano; restare svegli tutta la notte, sdraiati uno accanto all'altra a discutere di cinema e del proprio destino; assistere impotenti alla fine che arriva anche quando non l'aspetti, anche quando vorresti che una storia durasse in eterno.
E come sempre quando la testa non è che un groviglio di pensieri incasinati, a bordo di quel treno Riccardo cerca ordine nelle parole, aggrappandosi ai versi che è abituato a lasciar cadere tra le pagine del suo quaderno. E in mezzo a quelle rime e a quei pensieri rubati allo scorrere del tempo riuscirà forse a intravedere la verità di quanto accaduto tra lui e Laura. Che una fine non può cancellare tutto quello che l'ha preceduta. Che ogni finale può essere il prologo di una nuova storia.
C'è una frase: «Una casa sul mare, non è mai lontana da niente».
Come si può raccontare il mare a chi vede solo acqua?
A chi non si è mai ritrovato perso osservando l'orizzonte?
A chi non si è mai chiesto perché le lacrime e il mare hanno lo stesso sapore?
Se solo potessi metterei il rumore dei miei pensieri nelle conchiglie e il rumore del mare nella mia testa.