Intervista Alchimisti di parole – Silvia Fornasiero a proposito di Due donne
Pubblicato per la prima volta da Knopf nel 1929 con il titolo Passing, Due donne è il secondo e ultimo romanzo di una scrittrice la cui stessa vita potrebbe essere materia di romanzo.
Nata dall’unione di una giovane donna danese e di un afroamericano nativo dei Caraibi, Nella Larsen è vissuta sempre a cavallo tra mondi diversi, mai suoi. La madre, risposatasi con un compatriota, allontanò presto quella figlia nera, e i soggiorni in Europa non furono certo accoglienti. L’università per neri dovette sembrarle un ghetto, e severissimo, per cui la lasciò. Diventò infermiera per poi lavorare tra la Grande Guerra e l’epidemia di spagnola. Finalmente, col matrimonio, Nella si stabilisce a New York, ed entra a far parte del vivacissimo mondo della Harlem Renaissance. Scrive racconti, due romanzi. Poi il silenzio, di nuovo. Qualcosa di questa donna senza radici, forse fragile, certamente intelligente e talentuosa, traspare proprio dalle pagine del suo libro: le passioni, le paure, le scelte. Allora chiediamo alla sua traduttrice, Silvia Fornasiero, di raccontarci il suo lavoro e le sue riflessioni su Due donne.
Due donne/Passing è un romanzo scritto alla fine degli anni Venti, eppure estremamente moderno: come ti sei avvicinata alla lingua e al contesto utilizzati da Larsen?
Se prima di affrontare qualsiasi romanzo è importante documentarsi sull’autore e sul mondo in cui è ambientata la narrazione, in questo caso ho avvertito più forte il peso della responsabilità, poiché mi era stata affidata la ritraduzione di quello che ormai, a quasi un secolo dalla sua composizione, è considerato un piccolo classico della letteratura afroamericana.
Ho ricercato diverse edizioni originali del testo, arricchite da apparati critici preziosi, letto Quicksand, l’unico altro romanzo pubblicato da Nella Larsen, e rispolverato le mie nozioni della letteratura di quel periodo. Ho anche consultato altre ritraduzioni uscite in anni recenti di opere contemporanee a Passing, in cerca di un confronto su alcune scelte di impostazione.
Dal punto di vista linguistico, quella di Larsen è una prosa estremamente limpida, caratterizzata da un’abbondanza di avverbi e dall’uso insistito di virgole e incisi; una lingua colta, anche: come ha fatto osservare un critico, le protagoniste del romanzo si esprimono in un inglese impeccabile, mentre sono Jack Bellew, il marito razzista di Clare, e in misura minore Carl Van Vechten, il raffinato intellettuale bianco amico di Irene, a impiegare espressioni più colloquiali – un’altra manifestazione della sottile ironia di Nella Larsen nei confronti degli stereotipi sugli afroamericani e della famigerata «questione razziale».
A questo proposito, la difficoltà principale nel tradurre è stata rendere quei termini e quelle espressioni che fanno riferimento a una realtà che non ha corrispettivi nella cultura italiana, e cioè la segregazione razziale stabilita per legge, il razzismo non strisciante bensì elevato a sistema. Per non attenuare o edulcorare, ho scelto di rendere questi termini ed espressioni nella maniera più aderente possibile, affidandomi all’intelligenza e alla sensibilità dei lettori. Per esempio, quando si dice delle zie bianche di Clare che «They could excuse the ruin, but they couldn’t forgive the tar brush», cioè che potevano perdonare che il fratello avesse «rovinato» una ragazza mettendola incinta, ma non che lei fosse nera, ho reso così: «Potevano scusare la rovina, ma non perdonare la pennellata di catrame». In maniera analoga, la battuta autoironica di Brian: «Did you ever go up by nigger-power?» è divenuta: «Ci sei mai salita con ‘l’ascensore dei negri’?» – cioè a piedi?
Sono riuscita invece solo parzialmente a rendere la differenza, notevolissima, fra i termini black, Negro e nigger: poiché in inglese Negro ha una connotazione neutra, e si riferisce a individui «di razza nera», l’ho reso talvolta con questa perifrasi, talvolta semplicemente con «nero», al pari di black, mentre ho riservato lo spregiativo «negro» per la traduzione di nigger.
Tutto il romanzo gioca sull’equilibrio delicato nei rapporti tra le due protagoniste, Irene e Clare. Un equilibrio instabile soprattutto a causa della scelta di Clare, il passing: ci puoi dire brevemente di che cosa si tratta?
Passing vuol dire «farsi passare per bianchi»: cioè, da parte di un afroamericano dalla pelle chiara, nascondere la propria origine e fingere appunto di essere bianco. Questa pratica è comprensibile solo nel contesto di una società che possedeva termini specifici per indicare individui neri «per un quarto» o «per un ottavo» (rispettivamente quadroon e octoroon), e che arrivò a sancire per legge la cosiddetta one drop rule, per cui era sufficiente possedere una sola goccia di sangue nero – avere quindi magari solo un bisnonno o un trisavolo neri – per essere definiti di razza nera.
E naturalmente il passing trova il suo senso solo in una società segregata, nella quale fingersi bianchi – a costo di recidere ogni legame con la famiglia e la comunità di origine – poteva fare la differenza, per l’individuo, in termini di libertà e diritti nella vita quotidiana, di posizione sociale e di carriera lavorativa, ma, a livello ancor più basilare, in termini di incolumità personale, là dove fin troppo spesso bastava un sospetto per scatenare un linciaggio. Era certamente un gioco pericoloso (a meno che non fosse praticato solo occasionalmente, per convenienza, come fa Irene nel romanzo), ma probabilmente valeva il rischio, se è stato calcolato che oltre 350.000 neri siano «passati» nei primi vent’anni del Novecento. E il fatto che, a distanza di un secolo, negli Stati Uniti essere neri costituisca ancora un fattore di rischio è a mio parere uno dei motivi per cui questo romanzo è così attuale.
L’ambientazione nella New York degli anni Venti è splendida, e riporta alla memoria la grande letteratura di quegli anni, Fitzgerald prima di tutti. Ti sei confrontata con altri classici per tradurre Due donne?
Sì, certamente, in particolare con le recenti traduzioni delle due opere più celebri di Fitzgerald, Il grande Gatsby di Franca Cavagnoli e Tenera è la notte di Elisa Pantaleo; a causa della chiusura delle biblioteche durante il lockdown ho dovuto invece accontentarmi solo di qualche passo della traduzione di un classico della letteratura afroamericana come Uomo invisibile di Ralph Ellison, a cura di Carlo Fruttero e Luciano Gallino.
Il confronto più interessante e più fecondo è stato senz’altro quello con Il grande Gatsby: i due romanzi, scritti a pochi anni di distanza, sono ambientati nel medesimo periodo e nella stessa città, e appartengono entrambi alla grande corrente del Modernismo; non solo, si possono ritrovare affinità tematiche tra i due testi, nonché individuare un parallelismo tra le figure di Clare Kendry e di Jay Gatsby, a partire dal loro «passare» per ciò che non sono fino al tragico destino che li accomuna. Numerosi studiosi si sono soffermati sul rapporto tra i due romanzi: non ho avuto il tempo di approfondire troppo, ma anche questa volta il lavoro di traduzione mi ha dato l’occasione di arricchire le mie conoscenze.
Nella tua postfazione, interessante e piacevolissima lettura, hai ricostruito un’epoca, la storia della scrittrice e la storia del suo lavoro, e l’hai fatto durante il lockdown: dove sei andata a fare ricerca?
Grazie innanzitutto del complimento! La risposta è molto semplice: online. Ho potuto superare l’ostacolo della chiusura delle biblioteche grazie alla disponibilità di molti testi in rete; in questo senso, è stata preziosa l’iniziativa di un grande database come JStor, che proprio a causa dell’epidemia ha reso liberamente consultabili da chiunque i propri archivi, altrimenti accessibili solo tramite le università. Ho così avuto accesso dal computer di casa a un’ampia varietà di studi dedicati a Passing e a Nella Larsen, che sono stati fondamentali per la stesura della postfazione. Ma non sono mancati anche i contatti umani: ho un debito di gratitudine con Lynn Domina, autrice di una versione annotata di Passing, che ha avuto la gentilezza di rispondere ad alcune mie domande, e con due bibliotecari che hanno consultato per me un’antologia di poesie in cerca di un’eventuale traduzione italiana dell’epigrafe del romanzo.
Il piacere di leggere un libro «di carta» resta per me irrinunciabile, però in questa crisi l’estesa digitalizzazione della letteratura è stata senza dubbio un’ancora di salvezza, insieme alla grande disponibilità e gentilezza delle persone che ho incontrato virtualmente durante la traduzione.