Alchimisti di parole, intervista a Chiara Brovelli

Intervista a Chiara Brovelli, traduttrice di Lasciami andare di Katie Flynn

In libreria dal 12 maggio, Lasciami andare di Katie Flynn è un romanzo distopico, una fantascienza che abbiamo letto in bozza l’anno scorso pensando a un futuro lontano. In parte, però, quel futuro è arrivato da noi all’inizio di marzo, con il lockdown dovuto alla pandemia. Katie Flynn, infatti, ha immaginato una California sotto assedio virus, nella quale i più ricchi sono riusciti a salvarsi rimanendo ben chiusi nelle loro torri di cristallo. Ma la solitudine li ha spinti anche a creare dei compagni, droidi più o meno sofisticati fisicamente (fino a sembrare veri e propri umani) nei quali è conservata la memoria di una persona vera. Defunta. I personaggi del romanzo si muovono quindi tra corpi e non corpi, tutti alle prese con la loro nuova umanità. Libro affascinante, che Chiara Brovelli ha tradotto per noi con la consueta passione. Le chiediamo che cosa ne pensa.

Un aspetto interessante e piuttosto originale del romanzo è che, pur avendo una protagonista principale, dà voce a diversi personaggi. È stato difficile modulare il linguaggio a seconda dei diversi caratteri?

Buongiorno e grazie dell’attenzione. Rispondo subito a questa: personalmente amo i romanzi in cui la narrazione è affidata a più personaggi. È una sfida, ma è una delle cose che rendono divertente il mio lavoro. Adattare la lingua a sesso, età, background.

Il tema fondamentale del libro è che cosa significa essere umani. La memoria, infatti, può essere conservata anche in una scatola di plastica, oppure passare da maschio a femmina e viceversa – ma essenzialmente si rimane gli stessi? L’autrice riesce a pennellare il concetto con diverse sfumature della lingua, come hai affrontato questa sfida?

In linea di massima cerco di restare fedele alle scelte dell’autore, cercando di individuare subito eventuali frasi o espressioni che caratterizzano un dato personaggio, e poi lavorandoci per renderle in italiano. Mi viene in mente, per citarne uno, il personaggio di Lilac.

Pur essendo un romanzo di genere, Lasciami andare è abbastanza raffinato da poter essere definito letterario, da poter ricordare anche autori importanti come Philip Dick (Gli androidi sognano pecore elettriche/Blade Runner) o Kazuo Ishiguro (Non lasciarmi). Quali letture ti hanno aiutato a tradurre questo libro?

Non ho pensato a un romanzo in particolare. Lasciami andare mi ha colpito per l’originalità… e mi ha lasciata a bocca aperta dopo poche settimane dalla consegna: la quarantena, la casa di riposo che ha un ruolo importante nella narrazione. Rimanda tutto alla realtà che abbiamo vissuto e da cui non siamo ancora del tutto fuori. È stato pazzesco: fantascienza ma terribilmente reale.

E infine, c’è un punto del romanzo – una frase, una scena – che ti ha colpito in modo particolare e che ci vuoi segnalare?

Sì. Per come è scritta e per come viene narrata un pezzetto alla volta, ho trovato molto forte la scena della morte di Lilac. Perché è il suo passato che torna. La sua storia da raccontare. E il punto di partenza della sua nuova vita come compagna. Compagna ribelle che capisce di non dover accettare per forza la sua condizione.

Alessandro Portelli ricorda Toni Morrison

Era il 2006 e successe una cosa sorprendente: Toni Morrison accettò di venire in Abruzzo per accettare il Premio Penne, che veniva assegnato ogni anno a un vincitore di premio Nobel. Non so come fecero a convincerla, ma venne. Il rituale del premio precedeva che l’opera del vincitore fosse discussa e presentata da critici di cinque continenti (per l’Europa c’ero io, per l’Africa venne Cristina Ali Farah, non mi ricordo chi venne dall’Australia) e che una delle sue opere fosse rappresentata in forma teatrale dagli studenti del liceo locale.

Toni Morrison era straniata e un po’ sospettosa. Non capiva bene dove si trovava, arrivava da Parigi e il contesto semirurale di Penne era molto diverso dalla realtà cosmopolita a cui era abituata (ma dalla finestra dell’hotel, dotato di diverse stelle in meno di quelli in cui la ospitavano altrove, si vedeva il Gran Sasso). Quando Laura Montanari (allora mia studentessa, e promettente musicista, le fece ascoltare come aveva musicato un brano di Beloved, battè le mani ma si preoccupò di chiederle se aveva chiesto i diritti. Non credo che Laura abbia mai più eseguito quella canzone). Ma complessivamente era curiosa, ascoltava gli interventi, ed era disponibilissima con i ragazzi delle scuole. Devo avere ancora qualcuna di quelle foto con lei sorridente e loro che la circondano affettuosi.

Il momento più emozionante venne la sera in cui i ragazzi del liceo presentarono con l’aiuto di un regista di cui non riesco a ricordare il nome –  la loro versione teatrale di Jazz – sicuramente non il più facile da mettere in scena dei romanzi di Toni Morrison. Lo fecero partendo dalla musica, ed ebbero l’intelligenza di usare musica in cui si riconoscevano direttamente: fu allora che scoprii Vinicio Capossela. E partirono da una cosa che sapevano fare benissimo: ballare. Jazz diventò un balletto scenico senza parole su seduzione e morte, alleggerito dalla grazia dei ragazzi e reso intenso dal linguaggio dei loro corpi. Alla fine, Toni Morrison si alzò in piedi e disse: chiunque ha fatto una cosa del genere è un genio.

Io avrei voluto portare  quei ragazzi a Roma. Ma il Teatro Ateneo non aveva soldi e non ci riuscimmo. Me ne è rimasto il rimpianto per un lavoro di valore che ha vissuto una sola sera; ma mi è rimasta anche l’emozione di vedere Toni Morrison sciogliere infine dubbi e disorientamenti e sentirsi a casa davanti a un gesto artistico creativo dove riconosceva il senso profondo del suo libro.

Alchimisti di parole, intervista a Silvia Fornasiero

La misura delle nostre vite è una raccolta di frasi e aforismi tratti dai libri di Toni Morrison. Sono parole in cui si distillano molte delle caratteristiche della scrittrice: il suo stile poetico, a tratti aspro, spesso musicale, sempre folgorante per originalità e sintesi; il suo senso della letteratura sostanzialmente come ricerca della verità – umana, letteraria, filosofica, politica – e quindi come responsabilità personale di chi scrive; il suo rigore e la sua intransigenza ma anche la sconfinata tenerezza per gli esseri umani. Leggere queste frasi è un ripasso per chi la conosce e uno stimolo per chi ne ha sentito parlare ma non ha ancora trovato il tempo di scegliere un romanzo attraverso il quale avvicinarsi alla sua opera. Considerando che Morrison è stata anche e soprattutto una paladina dei diritti degli afroamericani, ma che i suoi romanzi parlano di madri e figlie, di mariti e mogli, di sopraffazione e libertà. Parlano, insomma, di tutti noi.

A introdurre questo libro è stata chiamata Zadie Smith, la cui prefazione è stata tradotta da Silvia Fornasiero, traduttrice anche di una larga parte del lavoro di Morrison. Perciò abbiamo chiesto a Silvia qualche impressione in più sulla raccolta.

La misura delle nostre vite mi è sembrato innanzitutto un omaggio (doveroso) alla grande scrittrice scomparsa la scorsa estate, un modo di offrire ai lettori gli spunti per una lettura più approfondita. Che impressione hai avuto, da traduttrice e profonda conoscitrice di Toni Morrison?

Confesso che appena ho avuto in mano il libro la mia prima sensazione è stata quella di un certo spaesamento, perché la scrittura di Toni Morrison non è quasi mai aforistica, bensì ricca, sfaccettata, fluviale (quante volte ho sudato per sciogliere certi suoi periodi!), perciò non ero abituata a considerarla per frammenti isolati, come sono quelli proposti nella raccolta. Tuttavia, procedendo nella lettura, mi sono trovata a riconoscere al volo alcune frasi, a scoprirne altre come se fosse la prima volta, e a restare senza fiato davanti alla bellezza, alla profonda verità di altre ancora. Mi auguro quindi che questa collezione di “assaggi” possa invogliare i lettori a scoprire, o riscoprire, le opere di questa grande scrittrice nella loro interezza, per poterle apprezzare come meritano.

Le frasi sono scelte secondo un criterio tematico, in linea di massima, e i temi spaziano dai sentimenti più umani, come l’amore, la gelosia, il senso di solitudine, alle riflessioni sulla scrittura come atto di responsabilità. Morrison ha questo approccio nella sua opera in generale?

Certamente. La sua aspirazione, come ha scritto, è sempre stata quella di produrre letteratura che fosse “indubbiamente politica e insieme irrevocabilmente bella” – una delle sue frasi che amo di più proprio perché racchiude in poche parole la sua concezione del proprio lavoro di scrittrice: una persona chiamata a scrivere per la comunità (nel suo caso, prima di tutto la comunità afroamericana), a descrivere il mondo nella sua crudezza, ma anche nel suo splendore, e insieme a ricordare a tutti i lettori che l’umanità è qualcosa di più e di meglio di ciò che spesso riesce a essere. Il discorso di accettazione del premio Nobel costituisce forse il punto più alto della riflessione di Toni Morrison sul significato della letteratura, e non a caso il titolo di questa raccolta è tratto da una delle frasi più memorabili di quel discorso: “Moriamo. Forse è questo il significato della vita. Ma produciamo il linguaggio. E forse è questa la misura delle nostre vite”.

Negli ultimi mesi, molti circoli di lettura si sono avvicinati a Toni Morrison, quasi sempre attraverso il suo capolavoro, Amatissima. Quale altro libro consiglieresti al neofita, e perché?

Tra i più recenti consiglierei Il dono, che risale ai primi anni della colonizzazione europea dell’America per cercare le radici del razzismo e della schiavitù attraverso la vicenda toccante di una giovane schiava, Florens, per la quale l’autrice ha inventato una lingua personalissima, ibrida, intensamente poetica. Il mio preferito dei primi romanzi di Morrison è invece Canto di Salomone, scritto in memoria del padre: un viaggio del protagonista alla ricerca di sé, alla scoperta del valore della comunità e del passato; un testo talmente complesso, profondo e variegato che è difficile presentarlo in poche parole, e che contiene una descrizione folgorante del colore nero che da sola, per me, vale la lettura.

E infine: hai tradotto la prefazione di Zadie Smith, che mi è sembrato un lucido ma anche personalissimo omaggio a Toni Morrison, punto di riferimento letterario e non solo per ben più di una generazione di scrittrici e scrittori. Che cosa pensi di questo articolo?  

Come si vede dalla data in calce, 7 agosto 2019, si tratta di un testo composto a caldo, a pochi giorni dalla morte di Toni Morrison, e la commozione sincera di Zadie Smith traspare chiaramente dalle sue parole. Insieme ad altre testimonianze che ho avuto modo di leggere in quei giorni, mi ha aiutato a comprendere a livello concreto, umano, un aspetto che prima non avevo colto pienamente, e cioè il grande debito di riconoscenza che molti giovani neri avvertono nei confronti di Toni Morrison per avere narrato la loro vita, proposto loro un modello cui ispirarsi, per essere stata tra le prime a ridare dignità alla cultura afroamericana, prima pressoché assente nel panorama culturale degli Stati Uniti. Come scrive Zadie Smith, “Toni Morrison si è messa al servizio della sua gente, e pochi scrittori sono stati chiamati a farlo, e lo ha rivendicato come un privilegio”. Credo che il suo omaggio appassionato a Toni Morrison sia un’introduzione eccellente alla lettura della raccolta.

La prima volta che ho incontrato Toni Morrison

Sono stata fortunata: la prima volta che ho incontrato Toni Morrison, quasi vent’anni fa, ero con la direttrice editoriale di Frassinelli di allora, Carla Tanzi, che le era amica, e per una sottintesa legge transitoria Mrs Morrison ha considerato benevolmente anche me. L’ammirazione leggermente reverenziale che avevo provato da studente e da lettrice di questa maestosa e inflessibile scrittrice premio Nobel – inflessibile prima di tutto verso se stessa, la sua scrittura, le sue responsabilità intellettuali – è diventata con gli anni un rapporto professionale e personale sempre più sfaccettato. Sempre più permeato dall’affetto, condiviso, in una sorta di sorellanza ideale, con le colleghe – quasi tutte donne – che hanno lavorato con lei. Per questo è diventata Toni, per noi ragazze della Frassinelli, la donna che ci ha fatto vedere il mondo semplicemente con altri occhi. Magari non è facile, almeno non sempre, ma è così che si diventa grandi.

La grandezza di Toni Morrison si misurava anche in riconoscimenti e nella foto che ho scovato tra le altre (veramente sgranata, lo so, scusate) lei è sulla pedana della cattedra di un’aula della Sorbona che riceve una laurea honoris causa. Ci sono i professori, c’è il ministro della cultura e c’è lei, seduta, dignitosissima nella toga giallo oro che è la divista dell’università parigina e pronta per il suo speech di ringraziamento.

Dopo, insieme alla sua editrice francese Dominique Bourgois, siamo andate a rifocillarci: un’altra sorellanza, chiacchiere, risate, un bicchiere di vino e nuovi progetti. Lei aveva sempre un nuovo progetto da condividere, un nuovo libro da scrivere, una storia mai detta da raccontare. Era magia ascoltarla, ci rimane la magia di leggerla.

Dove avviene la magia: dentro le case degli scrittori

Molti aspiranti scrittori sudano per anni sui loro manoscritti, mantenendosi alla bell’e meglio con lavoretti mal pagati. I pochi fortunati che sfornano un best-seller, però, insieme alla fama si assicurano la libertà economica. Anche se non sono tutti milionari, gli scrittori di successo si possono permettere di vivere nei loro domicili ideali. Con creatività.

Edith Wharton—Newport, Rhode Island.
Autrice di romanzi e racconti, Edith Wharton non ha dovuto fare i conti con le ristrettezze della povertà, visto che era nata in una ricca famiglia newyorchese. Famosa soprattutto per L’età dell’innocenza, che ha vinto il Pulitzer nel 1921, la Wharton era proprietaria di una tenuta vista mare a Newport, Rhode Island, un colosso di 1.000 metri quadrati con otto stanze e tre bagni, che oggi vale 8,6 milioni di dollari (è appena stato venduto). La scrittrice aveva messo su casa nel 1893 con l’allora marito Edward Robbins Wharton per 80.000 dollari, una cifra che corrisponderebbe a 2,3 milioni. Niente male per una magione che l’autrice, nella sua autobiografia, descriveva come “una brutta casa di legno con mezzo acro di sassi e chilometri di Oceano Atlantico a perdita d’occhio”. All’edificio principale, bisogna poi aggiungere la rimessa: altre tre camere.

La casa è ricca di elementi d’epoca, dalle decorazioni ai caminetti al cinz. Pareti e soffitti sono una festa di colori, che vanno dal burro al rosso sangue, dal borgogna al pesca, dal verde chiaro all’azzurro e così via. Ci sono uno studio tutto boiserie, le stanze da biliardo e le porte francesi che si aprono sull’oceano. E, se così vi piace, potete approfittare della stanza dedicata a creare le composizioni floreali.

Se Edith Wharton, che soffriva notoriamente di attacchi di depressione, non apprezzava la propria casa (si trasferì poi in Francia), la proprietà ha sempre ospitato membri dell’alta società. Gli ultimi proprietari sono stati Victoria Leiter Mele e il marito Joe Mele. Prima di loro la casa apparteneva alla madre di Mele, Marion Oatsie Charles, una grande dame della società di Newport ben introdotta a Washington, di cui apprezzava la vita mondana. La signora Mele è morta nel 2018 all’età di 99 anni.

Stephen King — Bangor, Maine.

KING
Se si pensa alla casa del maestro dell’horror Stephen King, s’immagina una dimora storica che ha tutta l’aria di essere abitata dai fantasmi. Ed è proprio così! Il re della paura ha trascorso la maggior parte della sua vita di successi in un edificio rosso sangue con un cancello tutto ghirigori abbellito da pipistrelli infernali. Negli ultimi tempi, lui e la moglie di sempre Tabitha sono diventati uccelli migratori: passano spesso l’inverno in Florida. E poiché intorno alla sua famosa casa rossa è cresciuto un certo interesse turistico, King qualche volta si trasferisce in un’altra proprietà lì vicina, nell’Oxford County. Per questo il comune di Bangor ha permesso a King di riqualificare la sua nota casa come no-profit, per tenere un archivio delle sue opere e aprirla in alcuni periodi dell’anno in qualità di residenza per scrittori (solo su richiesta).

“La famiglia King è stata meravigliosa nei confronti della nostra città e ha donato alla comunità di Bangor letteralmente milioni di dollari a favore di diverse cause”, ha detto l’assessore Bergen Sprague a Rolling Stone. “Conservare qui il suo patrimonio intellettuale è importante.”

Marlon James — Minneapolis, Minnesota.

Marlon James
Lo scrittore giamaicano-americano Marlon James ha vinto il prestigioso Man Booker Prize nel 2016 per Breve storia di sette omicidi. Questo resoconto dell’attentato a Bob Marley è rivoluzionario: mescola realtà e finzione, intreccia le avventure di killer gay e giornalisti di Rolling Stone, mentre racconta la vita della star del reggae. Con il suo romanzo successivo, Leopardo nero, lupo rosso, finalista del National Book Award, James ha continuato il suo percorso mescolando i generi, qui innestando i miti e il folklore africano al fantasy.

Può quindi sorprendere che la vivida immaginazione dello scrittore si irradi dalla nevosa Minneapolis, dove James è insegnante al Macalester College. Il suo antro da scrittore è un loft bohemien pieno di libri, arte pop, foto, dischi e piante.

“Mi è sempre piaciuta l’idea che il soggiorno sia uno spazio sociale”, ha detto in un’intervista al New York Times nel 2016.

“Quando scrivo sono solo, quindi mi piace avere ospiti ogni tanto, gente che gira per casa con un bicchiere di vino spiluccando qualche oliva. Poi di solito cucino piatti giamaicani.”

fonte: https://www.dirt.com/more-dirt/artists/incredible-homes-of-famous-writers-1203317901/

Una lettera di affetto e coraggio da Clarissa Pinkola Estés

NON PERDERE IL CUORE, SIAMO STATI FATTI PER QUESTI TEMPI

Clarissa Pinkola Estés, 29 marzo 2020

Nelle ultime settimane ho sentito tante persone profondamente disorientate. Sono preoccupate per lo stato delle cose nel nostro mondo in questo momento. […] Eppure … ti esorto, ti chiedo, gentilmente, di non inaridire il tuo spirito piangendo questi tempi difficili. Soprattutto, non perdere la speranza. […] Vorrei prenderti le mani e assicurarti che sei stato costruito per questi tempi. Nonostante i tuoi dubbi, le tue frustrazioni nel renderti conto di tutto ciò che è necessario cambiare, o anche se senti di aver perso l’orientamento, non sei senza risorse. Non sei solo. […] Ci siamo allenati per un periodo oscuro come questo, dal giorno in cui abbiamo accettato di venire sulla Terra. Per molti decenni, in tutto il mondo, anime come noi sono state abbattute e lasciate per morte, ancora e ancora – abbattute dall’ingenuità, dalla mancanza di amore, da un’impresa estrema, da un ritardo, da un’imboscata e da un’aggressione, culturale e personale.

Tutti noi abbiamo un’eredità e una storia di colpi durissimi, ma dobbiamo ricordare soprattutto … che abbiamo anche, se necessario, il talento della risurrezione. […] In qualsiasi momento oscuro, c’è la tendenza a deviare concentrandosi su quanto è sbagliato o incombente nel mondo. Non focalizzarti su quello. Non farne una malattia. C’è anche la tendenza a indebolirsi insistendo su ciò che è fuori dalla nostra portata, su ciò che non può essere ancora. Non concentrarti su quello. È come ricevere il vento senza alzare le vele. […] Uno dei passi più importanti che puoi fare per contribuire a calmare la tempesta è non lasciarti prendere da una raffica di emozioni o dalla disperazione, alimentando così involontariamente l’uragano. Non sta a noi riparare tutto il mondo in una volta, ma possiamo riparare la parte del mondo che è alla nostra portata. Qualsiasi piccola cosa un’anima possa fare per aiutare un’altra anima, per aiutare una parte di questo povero mondo sofferente, sarà immensa. […]

https://www.westword.com/news/clarissa-pinkola-estes-do-not-lose-heart-we-were-made-for-these-times-11677029

Facebook: Dr. Clarissa Pinkola Estes

La visione implacabile di Toni Morrison

LA VISIONE IMPLACABILE DI TONI MORRISON

L’occhio più azzurro, pubblicato cinquant’anni fa, ha tracciato un nuovo percorso nel panorama letterario americano.

Hilton Als, New Yorker 27 gennaio 2020

Prima di chiudere il libro, l’autrice si sofferma su alcuni pensieri finali intrisi di rimpianto, vergogna e orrore. Il libro? Il romanzo d’esordio di Toni Morrison, L’occhio più azzurro, che quest’anno compie cinquant’anni. Alla fine della storia, la povera Pecola Breedlove è stata abbandonata da tutti, dopo essere stata trattata con disprezzo per gran parte della sua vita; ed è rimasta a vagare per le strade in preda alla follia. Spettacolare anche rispetto ad altre opere prime attinenti al gotico – Mentre morivo (1930) di William Faulkner, o La saggezza nel sangue di Flannery O’Connor o L’uomo invisibile di Ralph Ellison (entrambi pubblicati nel 1952) —, Il libro di Morrison ha tracciato un nuovo percorso nel panorama letterario americano, mettendo al centro della storia le giovani ragazze nere.

Come tutti i personaggi de L’occhio più azzurro, Pecola vive a Lorain, in Ohio, dove Morrison, morta lo scorso agosto, era nata nel 1931. Quando incontriamo Pecola, ha undici anni ma è già abituata al dolore. La sua unica fuga dall’abuso emotivo che subisce in famiglia e a scuola è il sogno. E il sogno è questo: che qualcuno, forse Dio, le conceda il dono degli occhi azzurri. Il tipo di occhi azzurri che Pecola ha visto nelle immagini della star del cinema Shirley Temple. Il tipo di occhi azzurri che illuminano il viso della ragazza sull’involucro delle sue caramelle preferite, Mary Janes. Pecola sente, o è stata indotta a sentire, che se avesse gli occhi azzurri, alla fine, sarebbe libera, libera dalla sua imperdonabile oscurità, da ciò che la sua comunità ha etichettato come bruttezza molto prima che potesse guardarsi allo specchio e determinare da sé chi e cosa fosse. Alla fine, Pecola acquisisce o crede di acquisire gli occhi azzurri. Ma in quelle strazianti immagini finali, Claudia MacTeer, la vivace narratrice di nove anni di Morrison, vede ciò che Pecola non può: come la sua follia, il risultato di tutto quel rifiuto, assomigli al resto della città. Nonostante ciò, poche persone, a parte Claudia, testimoniano. Farlo significherebbe riflettere criticamente sulla società che li ha formati e dover cambiare. E la verità è che quando lasciamo Pecola, che raccoglie rifiuti ai margini del mondo, anche noi potremmo provare un certo sollievo nel non dover più vedere ciò che vede Morrison, la sua visione profonda e inesorabile di ciò che la vita può fare agli emarginati.

Morrison ha detto di aver scritto L’occhio più azzurro perché voleva leggerlo. Ha iniziato il libro nel 1965, quando aveva trentaquattro anni. Si è laureata in inglese alla Howard University, dopo di che ha conseguito il Master alla Cornell. Morrison ha continuato a insegnare alla Texas Southern University, e poi a Howard, dove ha lavorato a un racconto su una ragazzina nera che voleva gli occhi azzurri. Il personaggio era ispirato a una bambina che aveva conosciuto in Ohio, che aveva voluto quegli occhi e aveva deciso che Dio non esisteva quando non glieli aveva dati. Morrison mise la bozza in un cassetto e continuò la sua vita. Nel 1958 sposò l’architetto giamaicano Harold Morrison; sette anni dopo, la coppia divorziò e Toni rimase sola, con due bambini e il suo lavoro di editor presso LW Singer, una casa editrice di Syracuse.

La solitudine e il dolore sono spesso i primi strumenti di un’artista, e Morrison si è messa al lavoro ricordando e scrivendo del mondo da cui proveniva: la povertà, le storie di fantasmi che suo padre, un saldatore, raccontava ai figli. In un certo senso, L’occhio più azzurro si basa su quei racconti e onora gli anni in cui, senza saperlo, Morrison si stava preparando a diventare un’artista. Parte del genio di Morrison aveva a che fare con il sapere che i nostri sé feriti sono una manifestazione di una società malata, il corpo malato d’America, il cui malessere razziale continua a produrre Pecole. La puoi trovare ovunque. È la donna dalla pelle scura che cerca di schiarire la carnagione con creme sbiancanti; è quella che si sottopone a un intervento chirurgico per assottigliarsi le labbra o il naso; è la ragazza che indossa lenti a contatto colorate perché il mondo la veda in modo diverso.

Quando sei un bambino, un bambino nero o marrone o giallo o rosso, per lo più non inizi la mattina pensando a come il razzismo ti rovinerà la giornata. Quello che vuoi sapere è chi ti amerà e quali sorprese quell’amore ti porterà quel giorno. È il mondo che porta l’odio alla tua porta di casa ed è l’odio che ti fa nascondere chi sei. Da bambino, ho risposto visceralmente a L’occhio più azzurro, per una serie di motivi, a partire dalla copertina. Morrison, nella fotografia in quarta, sembrava il tipo di persona che la mia famiglia avrebbe potuto conoscere, e se era una di noi significava che forse anche una delle mie quattro bellissime sorelle maggiori avrebbe potuto scrivere un libro. Ora so che la speranza per le mie sorelle era un modo di avere speranza per me stesso, speravo di poter diventare l’artista che volevo essere. Mi sono aggrappato a ogni speranza che ho trovato. Ho sentito la situazione difficile di Pecola nello stomaco, non perché la gente pensava che fossi brutto, ma perché sapevo che, nella mia piccola comunità operaia a Brooklyn, la mia sessualità era considerata brutta. Il mio mondo nero allora (e, per essere sinceri, non è cambiato molto) è definito dalle regole dell’eterosessualità, e una delle poche cose su cui i suoi abitanti erano d’accordo era quanto gli omosessuali fossero spiritualmente abominevoli – nella migliore delle ipotesi, oggetti di derisione. Mi sentivo intrappolato a Brooklyn come Pecola a Lorain. Non avevo un sogno di occhi azzurri, ma sognavo un mondo pieno di cultura e artisti a cui un giorno sarei appartenuto, se, come Toni Morrison, avessi scritto libri.

Morrison aveva trentanove anni quando pubblicò L’occhio più azzurro. Anche se ha affermato in un’intervista del 1981 con Charles Ruas, «Non ho mai voluto diventare una scrittrice, volevo solo diventare un’adulta», è il lavoro di un’artista matura che si è stancata di aspettare qualcun altro per esprimere le proprie opinioni. Nel frattempo, anche la Morrison editor stava guadagnando forza. Quando uscì L’occhio più azzurro, lavorava alla Random House da quasi tre anni. I suoi colleghi non sapevano che era una scrittrice, perché non glielo aveva detto. «Non mi stavano pagando per quello», ha detto una volta. Alla fine, un collega ha individuato una copia de L’occhio più azzurro, e i successivi romanzi di Morrison sono stati pubblicati da Knopf, un imprint di Random House.

Il lavoro di Morrison aveva un obiettivo molto particolare: offrire ai lettori storie di neri, donne e altri personaggi emarginati che non erano stati raccontati prima. Questo desiderio – questa necessità – sembra aver accompagnato Morrison da quando era una studentessa di Howard. Come editor, ha scelto di mettere in evidenza quelle storie. Ora è sorprendente guardare indietro alla gamma dei suoi progetti: un libro sulla cucina del Sud; una storia del Cotton Club; opere di Gayl Jones e Toni Cade Bambara; poesie di Lucille Clifton e di Henry Dumas, ucciso a trentatré anni da un poliziotto della metropolitana di New York City; l’autobiografia di Angela Davis; e, nel 1974, The Black Book destinato, come L’occhio più azzurro, a mostrare vere vite di neri, dalle orribili navi schiaviste del Cinquecento secolo all’America del Ventesimo secolo.

Per me, L’occhio più azzurro e The Black Book, opere di altissima qualità, erano prove tangibili del fatto che essere un artista significava armarsi della verità – da dove vieni e dove speri di andare – e che l’ipocrisia era nemica dell’arte. Morrison mi ha mostrato cosa era possibile.

https://www.newyorker.com/magazine/2020/02/03/toni-morrisons-profound-and-unrelenting-vision

Intervista a Christian Pastore – Alchimisti di parole

L’angelo dell’abisso è un romanzo distopico (una fantascienza molto vicina a noi) che fa muovere i suoi protagonisti adolescenti in uno scenario quasi apocalittico. L’Europa infatti è devastata da una guerra di religione, scatenata da opposti integralismi, razzismo, populismo e furia cieca. Pibe e Stef, i due ragazzini che costituiscono il filo conduttore della storia, imparano a conoscersi mentre cercano di compiere una missione salvifica. L’autore, Pierre Bordage, uno dei più importanti autori di sci-fi francesi, se non il più importante, ha immaginato questo scenario all’indomani dell’11 settembre, e sconvolge quanto il suo racconto sia ancora drammaticamente attuale. Allora, se la letteratura, compresa quella di genere – come il giallo -, ha la vocazione di raccontare noi, il nostro tempo, la nostra storia, L’angelo dell’abisso è un pezzo di letteratura da non perdere. A tradurre questo romanzo incalzante e provocatorio, abbiamo chiamato l’amico Christian Pastore, al quale chiediamo qualche dettaglio in più sul testo.

Ciao Christian, hai raccolto con entusiasmo la sfida di tradurre questo libro corposo e avvincente, dandone da subito un giudizio positivo: qual è stata la tua prima reazione nella lettura?

Anche se allora non immaginavo di tradurlo, ho letto per la prima volta L’Angelo dell’Abisso una quindicina d’anni fa, e ai tempi a colpirmi era stata più che altro la struttura dell’intreccio. Alla storia di Pibe e Stef che attraversano un’Europa allo sbando, infatti, si accompagna in parallelo la storia di molti altri personaggi, a cui capitolo dopo capitolo l’autore passa il testimone di protagonisti della narrazione, fino a comporre l’affresco di un mondo malauguratamente possibile. Quando mi è stata proposta la traduzione e l’ho riletto, invece, a colpirmi è stato il constatare che le ipotesi di Bordage si sono fatte nel frattempo meno remote. Quando Bordage ha scritto il libro, a parlare di chiudere confini erano in pochi, oggi sono in molti e hanno un largo seguito, tanto che a volte ci riescono perfino. Bordage mostra, fra le altre cose, cosa potrebbe succedere se simili politiche si realizzassero pienamente.

In effetti L’angelo dell’abisso è un romanzo dalle atmosfere cupe, notturne, cariche di pericolo e di angoscia che ricordano il Philip Dick di Una svastica sul sole, per esempio: come hai lavorato sulla lingua per rendere quell’ambientazione?

Lo stile di Bordage sa essere molto descrittivo senza compromettere la fluidità dell’azione, ma rendere gli ambienti fisici non è stato poi così complesso, perché in questo senso la sua scrittura è trasparente, priva di ambiguità, ed è compiutamente evocativa. Più difficile è stato rendere l’ambientazione attraverso i numerosi personaggi, che sono al pari dei luoghi sfaccettature di quel mondo.

Bordage è un ottimo narratore di genere, che qui però, come dicevi, non si limita alla pura fantascienza ma lavora anche molto sui personaggi, attraverso dialoghi, interazioni profonde, scambi: tu hai fatto un gran bel lavoro nel renderli in italiano. Come sei riuscito a trasmettere le emozioni dell’originale?

Stef e Pibe a parte, moltissimi personaggi sono protagonisti di capitoli concatenati e indipendenti al tempo stesso. Sono personaggi eterogenei, quindi ogni capitolo racconta una diversa storia con un diverso linguaggio, o se non altro evoca un’atmosfera propria. Le emozioni erano lì, a volte nette e a volte più sfumate. Per renderle, ovviamente, c’era da comprendere il punto di vista del personaggio di turno, spesso autore o vittima di crudeltà efferate, comprenderlo a partire dal suo passato. Ho cercato di mettermi di volta in volta in certi panni, e certi panni possono essere particolarmente scomodi da indossare. Sempre che sia riuscito davvero a rendere certe emozioni, dunque, questo non è stato facile.

E infine una domanda più generale: hai tradotto anche la raccolta Respiro di Ted Chiang (ne abbiamo parlato l’anno scorso) e sicuramente ti muovi agevolmente nel mondo del fantastico. Che cosa pensi della nuova ondata di romanzi, racconti, film e serie tv distopici che stanno avendo tanto successo negli ultimi tempi?

Che sono troppe le fotocopie e pochi gli originali, prima di tutto, come sempre succede quando un genere prende piede. Perché il genere distopico ha preso così piede? Molti dettagli rappresentati a partire da classici come 1984 di Orwell o Il Mondo Nuovo di Huxley, si sono poi trasformati in realtà. Spesso le profezie più cupe mettono in guardia dalle derive del presente, e allo stato attuale gli equilibri del mondo sono, o sono percepiti, vacillanti come non mai. A molti interessa sapere come potrebbe andare a finire la storia se. Parlo della storia di tutti, la storia con la maiuscola. A guardare il mondo negli ultimi tempi, poi, è facile avere l’impressione che le distopie, semplicemente, siano un nuovo realismo.

L’angelo dell’abisso di Pierre Bordage, traduzione intervista Le Monde

«La fantascienza affronta temi planetari»
26 maggio 2019

Le Monde: La fantascienza francese ha un debole per la distopia. Fin dagli anni Settanta esiste una corrente molto impegnata: il ruolo dello scrittore di fantascienza è anche politico?

Pierre Bordage: C’è anche una parte di divertimento nel racconto, alla quale tengo molto. Se devo suscitare delle riflessioni nel lettore, voglio che passino attraversano le avventure dei miei personaggi. Desidero che il lettore si senta trascinato dalla storia e portato a farsi delle domande in modo naturale. Non voglio imporre le mie idee. Per me, la fantascienza è una letteratura graffiante, deve divertire, far riflettere e sollevare questioni filosofiche. Nella space opera per esempio, proiettandosi nello spazio-tempo, si interroga la natura stessa dell’essere umano.

Le Monde: Che ruolo può avere la fantascienza nella narrativa concettuale?

Pierre Bordage: Secondo me, se le macchine prendono il nostro posto, è proprio perché non abbiamo ancora pienamente raggiunto il nostro status di umani. Intendo dire che la macchina viene a compensare certe lacune sulle quali sarebbe interessante riflettere. Credo che l’uomo non abbia mai veramente raggiunto lo status di uomo. E le macchine rischiano di sottrarcelo prima del tempo. Nei miei romanzi cerco di riabilitarci. Fin da bambino ho sempre teso alla spiritualità, una spiritualità libera dai sistemi di pensiero dogmatico delle religioni. In quella libertà fondamentale credo si compia davvero la nostra umanità.

Le Monde: La fantascienza è stata in anticipo di cinquant’anni, poi di trenta, poi di cinque… come si scrive oggi, quando l’evoluzione tecnologica è più veloce dell’immaginazione?

Pierre Bordage: Bisogna passare al fantasy (ride).

Le Monde: Le intuizioni distopiche della sci-fi hanno spesso la sfortunata tendenza ad avverarsi. Di fronte alle difficoltà del discorso politico a rinnovare i suoi concetti e a suscitare nuovi desideri, la fantascienza può avere un ruolo illuminante?

Pierre Bordage: Mancano persone capaci di invogliare ad andare fino in fondo alle cose, di rivoluzionare tutto per raggiungere uno scopo. Oggi, nessuno ha uno scopo.

Le Monde: Davanti a questa constatazione, non è finita l’epoca degli allarmi? Invece di continuare a produrre tanti racconti post-apocalittici e distopici, perché la fantascienza non esplora di più le vie del desiderio?

Pierre Bordage: È molto difficile raccontare l’utopia. Tutti i racconto mitologici partono da una constatazione negativa, mettono in scena la virtù della prova: questa logica di percorso iniziatico si ritrova nella sci-fi e nel fantasy. L’utopia invece non permette questo percorso. A meno che non si racconti l’evoluzione verso l’utopia. D’altro canto, la fine del mondo è descritta dappertutto, in tutti i testi antichi. È una parte integrante della nostra cultura. Questa tendenza alla distopia, piuttosto, pone la questione della responsabilità dell’autore: i nostri scritti preparano o denunciano gli eventi? In altri termini, poiché le parole hanno un grande potere, quando scriviamo prepariamo il lettore a certi scenari futuri? Può essere.

Ricordando Toni Morrison

Morrison, 5 marzo 2020

Non so se capita anche a voi, ma in questi giorni di cambiamenti delle abitudini, dettati dall’emergenza e anche dalla preoccupazione del contagio, ho cominciato a vedere il posto in cui vivo in modo diverso. Il posto in cui vivo è Milano, per non rimanere nel vago, però mi sembra che sarebbe successa la stessa cosa ovunque. I ritmi rallentati, il traffico quasi inesistente, la gente sparsa, anche la sera, anche nel weekend. Ognuno avrà cominciato a fare le sue considerazioni, come me, qui e ora vi dico solo che tutto questo – ritmi, persone, movimento – mi ha fatto venire in mente un brano che avevo letto in Jazz, di Toni Morrison. Tra parentesi, Jazz è un romanzo ambientato nella Harlem degli anni Venti, una storia di emigrazione dalla campagna alla città, anzi alla Città, che modella l’animo umano e ne influenza i rapporti con gli altri. Una storia di amore e rabbia raccontata a ritmo di jazz, appunto. È un libro bellissimo, che ve lo dico a fare.

Comunque, per tornare al brano di cui vi parlavo, mi chiedo se anche a voi la nuova geografia che vi circonda ha fatto venire in mente qualcosa del genere, vi ha ricordato qualcosa che avete letto o visto, o che state guardando o leggendo. A proposito, che fate di nuovo, nel tempo in più, se ne avete? Ieri ne parlavamo tra amiche: oltre a continuare a lavorare, magari da casa, c’è chi si ritaglia un momento per passeggiare coi figli, chi rinfresca il suo tedesco arrugginito, chi legge i libri che aveva lasciato indietro. E voi?

Ed ecco il brano (in verità ci sono pagine notevoli sulla città, questo è solo un assaggio):

«Città è come vuole che sia: prodiga, calda, spaventosa e piena di amabili estranei. Nessuna meraviglia che si scordi dei ciottoli dei torrenti, e se non dimentica del tutto il cielo, ci pensa solo come a un frammento d’informazione sull’ora del giorno o della notte.»

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