Il primo traduttore che ha accettato il nostro invito a contribuire ad Alchimisti di parole è una traduttrice: Silvia Fornasiero. È lei che ha firmato la traduzione di Una spia americana di Lauren Wilkinson (in libreria dal 21 maggio) e ci racconta in un video che cosa ne pensa. Silvia ha poi risposto a qualche domanda sugli «attrezzi del suo mestiere», almeno quelli che ha utilizzato per lavorare su questo libro. Con generosità ed evidente passione, Silvia ci porta tra le pieghe del testo. E ci sembra che leggere sia ancora più bello.
La prima cosa che ti chiedo è come lavori, perché i traduttori lavorano ciascuno a suo modo: leggi il libro prima e poi fai le ricerche, prepari tutto il terreno per poi metterti a tradurre, lavori di getto? Raccontaci il tuo laboratorio.
Innanzitutto approccio il libro come lettrice (in questo senso, un po’ mi dispiace non ricevere più i libri di carta, anche se indubbiamente lavorare su file è molto più pratico), cerco di gustarmelo e intanto di cominciare a capire quali sono i punti ostici e i punti di forza; poi, quando mi metto al lavoro, faccio le ricerche necessarie via via che incontro i problemi, perché spesso non saltano all’occhio subito. Sono tra coloro che arrivano a una prima stesura già ben costruita, non dico «buona la prima», ma già un lavoro più che dignitoso. Una volta terminata questa prima fase, mi dedico a una revisione di fino con il testo a fronte e poi a una seconda lettura, solo sull’italiano, di nuovo come se fossi una lettrice, per vedere se sono riuscita a ricreare lo stesso effetto del testo inglese.
Nel caso di Una spia americana le ricerche non sono poche. Ricordiamo per esempio che nel libro si parla del periodo tra gli anni ‘60 e ‘80, tra America e Burkina Faso, quando il suo presidente era Thomas Sankara. Dove sei andata a pescare le notizie?
Tanto nei romanzi che traduco quanto nei film che adatto, la ricerca è maggiore soprattutto per quegli aspetti che non rientrano nei libri di storia, nelle enciclopedie. In questo caso, per esempio, i colori delle spillette del movimento panafricanista degli anni ‘70; oppure il nome della margarina servita sui waffle in un diner. Cito la margarina perché ho scoperto che ai tempi i produttori di burro statunitensi si erano opposti all’impiego di un colorante giallo per renderla più simile al burro, e avevano imposto che restasse bianca oppure venisse colorata in maniera accesa (addirittura di rosa!). Ho approfondito questo dettaglio perché nel testo c’era un misterioso «Technicolor oleo», che ho poi reso in italiano con un semplice «margarina dal colore vivace» perché non mi sembrava opportuno dilungarmi in spiegazioni. La ricerca che riguarda gli aspetti storici, politici e culturali presenti nel romanzo è stata più intensa ma anche più appassionante: si va dai movimenti della controcultura degli anni ‘60 e ‘70 alla vita in ufficio negli anni ’80; dalla sede di New York dell’FBI, ai negozi e ai locali storici degli anni ‘80, che ora non ci sono più. È stata una ricerca a tutto campo, tra enciclopedie, siti, testi di storia. Su Thomas Sankara ho trovato due volumi dedicati alla sua biografia e ai suoi discorsi, in parte citati nel libro. E poi ringrazio il cielo che esista Google Maps, perché ho potuto seguire la mia protagonista non solo per le vie di New York ma anche nei quartieri di Ouagadougou! Infine, non dimentichiamo l’ambito spionistico: nel libro gli omaggi letterari ai romanzi più celebri non mancano, perciò mi sono riletta alcuni capisaldi della letteratura di spionaggio. È stato un tuffo in un mondo diverso alla scoperta di decine, centinaia, di cose che non sapevo, e questo è anche il bello del mio lavoro.
All’interno del libro sono citati diversi libri pubblicati molti anni fa, quando il linguaggio era meno rispettoso di razza, genere, cultura diverse da quella dominante. Che approccio hai avuto rispetto a questo punto?
Una spia americana, oltre a contenere alcuni riferimenti alla letteratura più conosciuta, si colloca anche esplicitamente all’interno del canone della letteratura afro-americana. La dichiarazione d’intenti di Lauren Wilkinson si trova nell’epigrafe, una citazione da Uomo invisibile di Ralph Ellison, nella quale un padre invita figli e nipoti a vivere nella terra dei bianchi come se fossero spie. Poi nel testo non ci sono digressioni insistite, ma sottili rimandi che aspettano solo di essere colti dal lettore più attento, come la conversazione su Passing di Nella Larsen. C’è anche un aspetto più radicale legato alla citazione di un romanzo di cinquant’anni fa che viene tuttora studiato all’accademia dell’FBI di Quantico, The Spook Who Sat by the Door di Sam Greenlee. In italiano all’epoca è divenuto Il negro seduto accanto alla porta, un titolo che oggi fa sobbalzare e incuriosisce. Approfondendo ho scoperto che è una storia esplosiva, una vicenda fantapolitica in cui il primo agente nero reclutato dall’FBI si mette a capo di un movimento rivoluzionario per minare le fondamenta del potere negli Stati Uniti. E la protagonista di Una spia americana, Marie, si presenta come la prima agente nera donna all’interno dell’FBI di New York!
Ti faccio un’ultima domanda, una curiosità: c’è una frase che ti ha colpito in modo particolare?
Mi è piaciuta una frase, come riflessione generale, e mi è proprio rimasta impressa nella memoria. È un momento molto drammatico, la protagonista è piena di dolore e di rabbia e dice: «Probabilmente voi non mi avete mai visto così. Quasi nessuno, in realtà. Non ci ho mai guadagnato niente nel mostrare il mio lato più oscuro. La rabbia che rivelo al mondo è soltanto sottintesa: lascio intendere di essere sul punto di non riuscire più a controllare la mia furia. Solo così risulta accettabile la forza di una donna: quando appare trattenuta».