In occasione della Giornata della Memoria, Sperling & Kupfer porta in libreria dal 25 gennaio il nuovo romanzo di Nicola Brunialti, ‘Un nome che non è il mio’.
La nostra editor Linda Poncetta ha intervistato l’autore, che ci ha raccontato il suo nuovo romanzo, aiutandoci ad affrontare tematiche ancora oggi molto importanti.
Raccontaci di cosa parla questo romanzo. Cosa ti ha portato a scriverlo?
L’idea del libro mi è venuta passeggiando per Roma e notando quanti segni legati al nazismo riempiono ancora i muri della mia città, soprattutto svastiche. Allora mi sono chiesto: possibile che ci siano ancora oggi, nel ventunesimo secolo, persone attratte da quel simbolo? Possibile che ci sia ancora chi trova fascinazione in una svastica? In un simbolo che si porta dietro così tanto dolore? Ho pensato che per raccontare quali orrori si nascondessero dietro alla svastica e quali nefandezze fossero state commesse all’ombra di quel segno, ci fosse bisogno di raccontare la storia di chi quegli orrori li aveva vissuti sulla propria pelle. È qui che ho pensato a Irena Sendler, l’infermiera polacca, conosciuta anche come “la Schindler di Varsavia”, che salvò dal ghetto quasi 3.000 bambini ebrei. La sua, insieme a quella dei suoi bambini, mi è sembrata la storia ideale per svelare ancora una volta quale abisso si sia raggiunto a Varsavia durante gli anni dell’occupazione nazista. Ma anche quali vette di amore, compassione e coraggio straordinario.
Come è stato immedesimarsi nei personaggi e scrivere una storia così importante e potente?
Questo libro è stato per me un lungo viaggio. Per quasi due anni ho vissuto «mentalmente» nel ghetto di Varsavia. Ed è stata un’esperienza davvero molto dura. Per scrivere di quelle vicende, per essere credibile, ho dovuto immaginare di essere lì davvero, entrare nell’animo dei miei personaggi e vivere con loro tutto ciò che man mano gli capitava nell’arco della narrazione. Devo dire che alla fine, la “frequentazione” quotidiana con tutti i membri della famiglia Katznelson è stata così profonda che, mentre me ne stavo seduto alla mia scrivania, erano loro a raccontarmi la loro storia e non viceversa. È come se mi avessero concesso l’onore di ascoltare la loro vita e «farmi memoria viva» delle loro vicissitudini.
Cosa c’è di vero in quello che racconti?
Chiuso in casa per il lockdown dovuto all’epidemia di Covid19, mi è stato impossibile viaggiare o incontrare i testimoni diretti di quell’orrore. Però sono riuscito a parlare con alcuni discendenti di chi quelle vicende le aveva vissute davvero. E ho letto decine di libri sull’argomento specifico, dopo averne letti altrettanti sulla Shoah nel corso della mia vita; ho visto documentari, film, interviste sul web; ma soprattutto ho letto i diari di Emanuel Ringelblum, uno storico polacco che invitò tutti gli abitanti del ghetto a redigere i loro personalissimi diari durante l’occupazione nazista, perché i posteri sapessero quello che il popolo ebraico stava passando. In quei diari ho trovato nomi, vicende, aneddoti che hanno arricchito il mio racconto della veridicità di cui aveva bisogno. È grazie ai racconti di quelle persone, ai loro diari e alle loro testimonianze se questo libro è potuto nascere. È grazie al dolore dei loro ricordi che queste pagine hanno preso vita nella maniera più «verosimile» possibile. Per questo posso asserire che i miei personaggi sono solo “accidentalmente” immaginari.
A cambiare la vita del piccolo Yanusz è un’infermiera polacca, un personaggio per il quale ti sei ispirato a Irena Sendler. Chi era? Come hai conosciuto la sua storia?
Qualche anno fa ho letto su un quotidiano di questa donna polacca candidata al Nobel per la Pace, era il 2007. Purtroppo quell’anno le fu preferito Al Gore. Irena fu davvero un’eroina che grazie al suo lavoro come infermiera e assistente sociale riuscì a far uscire i piccoli ebrei dal ghetto di Varsavia, portandoli in salvo nella parte ariana della città. Questo anche grazie alla sua appartenenza alla Zegota, un’organizzazione clandestina che aveva proprio lo scopo di aiutare i cittadini ebrei di Varsavia. Proprio grazie alla Zegota Irena riuscì a ottenere centinaia di documenti falsi per i piccoli fuggitivi e l’aiuto fondamentale di complici sia per farli fuggire dal ghetto, sia per ospitarli finché non venivano affidati a famiglie compiacenti che li nascondevano come orfani di guerra. O istituti religiosi cattolici che li ospitarono, prendendosi cura di loro, fino alla fine dell’occupazione nazista.
In che modo, secondo te, la Giornata della Memoria può aiutare le nuove generazioni? Quale ruolo devono avere gli adulti e la scuola?
Sono convinto che mai come oggi sia necessario farci noi memoria vivente di quel passato, soprattutto adesso che i protagonisti diretti stanno scomparendo e l’antisemitismo ritorna in maniera ancora più feroce nella cronaca quotidiana di tutto il mondo, pur non essendo mai scomparso del tutto, purtroppo. C’è bisogno che i ragazzi conoscano quelle storie, che immaginino le vite di quei corpi ammassati uno sull’altro fuori da un capanno in uno dei campi di concentramento che gli vengono mostrati soprattutto in occasione della Giornata della Memoria. C’è bisogno di tirare fuori dai gelidi numeri dell’Olocausto le speranze, le paure e i sentimenti di un popolo intero. E provare, per una volta, a metterci in quei panni. Provare a essere loro. In questo la scuola e gli adulti hanno un ruolo fondamentale. Perché entrambi svolgono il compito di educatori. E credo che non ci sia niente di più importante che educare all’empatia, al rispetto e alla comprensione per ridare dignità a tutte quelle persone che non possono più chiederla con la loro voce. Oggi tocca a noi essere quella voce.