La lista delle cose semplici
Ci si abitua anche alle cose più terribili. Alla morte di un padre o di una madre, di un fratello, di una sorella, di un amico, alla fine di un amore.
Ci si abitua ai non-amori, ai non-abbracci, alla non-vita, finché sembra tutto normale. Ma quanto possiamo resistere? È vero, siamo capaci di ricalcolare le nostre vite, come fa il navigatore quando sbagliamo strada, e ripartire. Io ho fatto così dopo che mi è successa una cosa che non avevo minimamente messo in conto.
Quando ho iniziato a scrivere “la lista delle cose semplici” ho dovuto far accomodare accanto a me la bambina di undici anni che avevo ignorato e che, improvvisamente, dopo quasi trent’anni di quieta convivenza, aveva alzato la mano per dire la sua. Allora, mi sono re-immersa nella placenta dei ricordi e, galleggiando in quel liquido che mi nutre e mi fa essere viva, ho ascoltato. E lì, in quell’habitat primordiale, ho capito che quello che mi era sembrato normale per tutta la vita e a cui mi ero abituata, era assolutamente non-normale.
Sono stata una bambina molto felice e poi molto triste. Ho perso molte cose della mia infanzia che non sono più tornate e ne ho trattenute altre, inconsapevolmente, che ancora oggi mi vengono in aiuto nei momenti di merda. Quando sei piccolo non hai idea di che cosa voglia dire crescere, diventare grandi. Che poi “grandi” rispetto a chi? Ai bambini? Mah, non saprei. Io dico che più diventi grande, più hai paura. Da piccolo hai quella del mostro sotto il letto, ma non quella più spaventosa di tutte: delle cose che non esistono, che non sono ancora, e che forse non saranno mai. Mentre cresci, cerchi di portare a casa la pelle, poco importa se stai sanguinando, se hai perso un braccio o una gamba, l’importante è salvarsi. A un certo punto, però, in questa roba aggrovigliata che è la vita, che ti chiede di essere all’altezza e di crollare, di ridere e di piangere, di andare e stare ferma, di perdere e di trovare, di cominciare e finire, di amare e di farti amare, proprio nel momento in cui dovresti “essere grande”, si riaffacciano tutte le domande che hai lasciato in sospeso, le cose non fatte, o fatte per compiacere gli altri, non dette, non provate. Le emozioni e i sentimenti ai quali hai rinunciato per non doverci fare i conti.
Nel mio romanzo c’è un grande dolore che avvolge tutto, che asciuga le lacrime e toglie le parole. C’è una bambina che diventa grande troppo in fretta e che invece avrebbe voluto ancora giocare con le farfalle in giardino con sua sorella. C’è la sacralità perduta della famiglia che non mantiene le promesse, ma più di tutto c’è il sentimento che sottende a tutte le nostre vite: la paura. La paura intangibile di essere liberi, di essere felici, di andare incontro ai sogni, di dire la verità e di ascoltarla. Ma c’è anche una forza silenziosa, una resilienza, un’obbedienza testarda e al contempo una ribellione al destino, che ha lanciato i suoi dadi senza chiederti il permesso, plasmando le vite di tutte le persone che fanno parte di questa storia, la mia storia. Vorrei che i miei lettori potessero riconoscervi un po’ della loro perché è questo che fanno i libri: aprono ferite ancora sanguinanti, ci fanno morire e rinascere più forti, più vivi, più “noi”, ci fanno alzare le saracinesche di stanze con secoli di polvere con coraggio e maleducazione. Scrivere è prendersi il permesso di essere pazzi, di disobbedire. Alla fine ci siamo noi, con le nostre piccole vite, le nostre nevrosi, i nostri demoni, il nostro coraggio e la nostra lista di cose importanti (ognuno ha la sua), che sono sempre di una semplicità disarmante.
Così, impariamo che siamo proprio noi il miracolo che andiamo cercando.