Gentile e i suoi bambini
In occasione della festa della mamma Patrizia Emilitri ci regala un breve pezzo inedito, legato al suo romanzo COME SE L’AMORE POTESSE BASTARE.
Incontriamo Gentile, la conosciamo meglio mentre, indaffarata a cucinare, con le mani sporche di farina, pensa ai suoi quattro figli. “Li guardavo e pensavo se davvero ero per loro una buona madre, se stavo facendo tutto il possibile per insegnare il rispetto, l’educazione, la felicità.”
Quale mamma non si è mai posta una domanda del genere?
Un brano dolcissimo e forte, un romanzo che consigliamo di leggere e regalare in un giorno importante per tutte le mamme.
“Con le mani sporche di farina, mentre impastavo l’ennesima pagnotta senza sale, guardavo i miei bambini giocare nel centro della stanza. C’era caldo sufficiente perché le loro guance fossero arrossate per il troppo muoversi e rincorrersi.
Li guardavo e immaginavo il loro futuro.
Li guardavo e pensavo se davvero ero per loro una buona madre, se stavo facendo tutto il possibile per insegnare il rispetto, l’educazione, la felicità.
Delfina, la mia primogenita, la bimba grande, con quello sguardo materno e un sorriso che la cicatrice sul labbro lasciava a metà. Sarebbe diventata una donna robusta, capace di badare a se stessa e alla sua famiglia. Si sarebbe sposata con un uomo che l’avrebbe amata per sempre perché era ciò che meritava. Era delicata, dolce, abbracciava i suoi fratelli quando avevano freddo e li accarezzava quando avevano paura, senza mai mostrare la sua di paura. La spaventavano i temporali e i luoghi bui, la spaventavano le urla e le persone brutte. Brutte per lei voleva dire con il naso grosso o le gambe storte. Quando vedeva Pilade, il fratello di Armida, zoppo a causa della poliomielite, afferrava un lembo della mia gonna.
Paure di bambina, come era giusto che fossero. Paure che in quei pochi mesi aveva dovuto combattere, ritrovandosi spesso nei rifugi al suono delle sirene, stretta in spazi angusti con persone di ogni tipo. La vedevo deglutire spesso e socchiudere gli occhi, i suoi begli occhi scuri, gli occhi di suo padre.
Giuseppe, che in quel momento disegnava su un pezzo di legno con un mozzicone di matita, era il più tranquillo, il più riservato. Parlava poco, anche se continuava a ripetere quella tiritera della fame e osservava il mondo intorno a sé sempre con grande attenzione e gli piaceva quando Delfina gli raccontava quello che aveva imparato a scuola. Non vedeva l’ora di diventare grande abbastanza per andarci anche lui, anche se grande lo era già. Era più alto della sua età, era il più simile a Bruno, la schiena robusta, le spallucce già quadrate, i piedi lunghi. Sarebbe diventato uno studioso, ne ero certa. Non gli piaceva il lavoro manuale, non gli piaceva sporcarsi e quando Delfina lo invitava a giocare in cortile, lui storceva il naso e se una goccia di fango o un po’ di povere gli macchiavano la maglia, correva in casa e chiedeva che gliela pulissi.
Agata, la mia fragile Agata, la mia bimba così esile che sembrava potessi rompersi ad ogni colpo di tosse, così pallida, eppure così bella, il volto ovale, gli occhi verdi, i capelli biondissimi e un sorriso capace di sciogliere anche il più duro dei cuori. Aveva le mani piccole, ma le dita lunghe e amava la musica. Chissà se sarebbe diventata una musicista o una ballerina, chissà se sarebbe cresciuta abbastanza per provarci, se essere così cagionevole avrebbe minato il suo futuro. Chissà se sarebbe mai diventata una donna.
Giovanni, il piccolo di casa, gattonava intorno ai suoi fratelli con le gambette robuste e l’espressione beata. Era sempre allegro, non piangeva mai. Delfina gli insegnava a giocare, cantava per lui e Agata ballava con le braccia al cielo. Ogni tanto sembrava assentarsi, come se oltre noi, oltre a Brevio, potesse vedere qualcos’altro, un altro mondo, un altro tempo. Un sognatore, probabilmente, e mi auguravo che potesse diventare un viaggiatore o un poeta.
Li guardavo e di una sola cosa ero sicura: i miei bambini sarebbero cresciuti, sarebbero diventati grandi insieme, fuori dalla guerra, in un mondo da ricostruire, da rimettere a posto. Un mondo migliore. E loro sarebbero state persone migliori di noi, di me, di Bruno, di chi si ostinava a combattere, a intimidire, a rendere difficile la loro infanzia.
Li avrei tenuti per mano fino a quando avessero avuto bisogno di me, li avrei accompagnati sempre con un sorriso, rispettando le loro scelte, e avrei fatto parte delle loro esistenze. Mi avrebbero regalato dei nipoti e la vita avrebbe ripreso a scorrere nel giusto modo, con serenità.”