Luminusa: la parola a Franca Cavagnoli
Luminusa è nato da alcune immagini. Nella prima ci sono dei corpi stesi su una spiaggia, ciascuno ricoperto da un lenzuolo bianco. Sono allineati uno accanto all’altro. Poi sono venute le diapositive del sito di Askavusa, un’associazione culturale di Lampedusa. I ragazzi avevano riunito in una stanza gli oggetti dei migranti rinvenuti in giro per l’isola, sulla spiaggia, nel mare, e ne avevano pubblicato le foto sul loro blog. Infine è stata la volta della Rosa nera di Kounellis, che da allora torno spesso a vedere al Museo del Novecento di Milano. Quando il romanzo era ormai finito, alla stazione di Firenze ho visto una fotografia di Masiar Pasquali, un giovane fotografo nato in Toscana da padre italiano e madre iraniana, che attualmente vive a New York. In questa foto si vede un bambolotto nero a pancia in giù, per terra, sulle assi ruvide di un pavimento. La testa è pericolosamente vicina allo zoccolo di legno della parete, di un verde acqua molto chiaro. Sembra che l’abbiano buttato via. O che se lo siano dimenticato lì. Quella foto condensa in sé tutto.
Immagini che sono una geografia del Mediterraneo.
Guardando e riguardando le foto con gli oggetti dei migranti ho cominciato a immaginare di chi fossero quei poveri resti rinvenuti sull’isola. A chi erano appartenuti? Ho cercato di immaginare i volti, le mani che li stringevano, i luoghi dai quali venivano, la vita di chi fugge da un paese in guerra o dalla miseria. Lavoravo, e lavoro tuttora, a una tetralogia, di cui Luminusa è il primo libro. I protagonisti sono un gruppo di amici che vivono a Milano – alcuni compaiono brevemente nel romanzo: Madina, Villeneuve, Andrea, Ralph – e al centro c’è un tema che mi sta molto a cuore: ‘la tirannia della distanza’, come la chiamano gli australiani. Come si può restare uniti nella lontananza? Come si può farlo senza essere divorati dalla nostalgia? Mario già si muoveva nella mia mente ma non era ancora legato a una storia sua. Poi sono venute la primavera araba e la guerra in Libia. E i corpi sulle spiagge sono aumentati. A poco a poco Mario ha trovato la sua storia in Luminusa.
Via via che il numero delle persone che perdevano la vita nelle acque del Mediterraneo cresceva, mi rendevo conto che queste morti non generavano empatia. La cronaca si fermava, e si ferma pure oggi, ai fatti, ai dati, ai numeri: le pagine dei giornali si riempiono per qualche giorno di cifre spaventose e poi tutto viene dimenticato.
Tutti quei morti fanno così tanta paura che la gente li tiene a distanza. Rimangono lontani. Rimangono anonimi. Dovremmo piangere ognuno dei morti del Mediterraneo, e invece quasi non ci toccano. La letteratura permette di vedere ciò che la cronaca non consente di vedere. Ha tempi lunghi, favorisce la rilettura, la riflessione. Permette di pensare e di pensarsi. La letteratura, con i suoi tempi lenti, ci esorta a essere più attenti all’altro e favorisce l’immedesimazione.
Nel 2013 ho fatto un viaggio a Lampedusa e in un centro di accoglienze nelle Marche, dove ho ascoltato il racconto di alcuni ragazzi sbarcati sull’isola. E a poco a poco il mosaico di storie che compone Luminusa si è formato. Il tutto è accaduto lentamente e nell’arco di molto tempo. C’è un elogio della lentezza in Luminusa, e Mario infatti le didascalie le fa in versi perché così tutto esce più lento. La cronaca si ferma ai numeri, la letteratura cerca i nomi, cerca di dare un nome a chi l’ha perso, di restituire una vita. A partire dai resti vilipesi che trova in giro per l’isola, Mario cerca di riesumare i morti. E lo fa con gesti lenti, che lo fanno restare umano.
Davanti alla Rosa nera di Kounellis certe volte penso che piacerebbe tanto a Jamaica Kincaid, che lamenta la mancanza anche di un solo fiore nero nei giardini. E alla notizia di ogni nuovo naufragio, come Mario penso a tutti gli africani che durante la tratta degli schiavi hanno perso la vita nel famigerato Middle Passage, la traversata dell’Atlantico compiuta dalle navi negriere per deportare e vendere all’asta milioni di persone nelle isole dei Caraibi. Secondo uno storico afroamericano, W.E.B. DuBois, sono più di sessanta milioni gli africani morti nelle acque dell’Atlantico. E Toni Morrison a loro ha dedicato il suo libro più sentito e conosciuto, Amatissima.
Dentro di me, per anni, credo abbiano lavorato sia le parole di Jamaica Kincaid sia quelle di Toni Morrison, dei loro libri che ho tradotto. Mi hanno portato a vedere il mondo con altri occhi. Ma forse tutto è nato con un libro per l’infanzia, Le avventure di Huckleberry Finn: ricordo molto bene la mia trepidazione da bambina per le vicende di Jim, lo schiavo nero, il mio terrore all’idea che lui fosse venduto a monte del fiume e la sua famiglia a valle. Che la famiglia di Jim venisse separata.
Oggi come allora gli africani muoiono nelle acque del mare. Ora tocca alle acque del Mediterraneo. Il colonialismo presenta il conto. E il paradosso è che il colonialismo non è finito. L’Europa tutta ha una precisa responsabilità storica. Nessuno è innocente in Europa. Nessuno è innocente in Italia. Nessuno di noi può permettersi di dimenticarli. E ognuno di noi dovrebbe fare qualcosa perché questo non accada.