Se è vero che il calcio è lo specchio di un Paese, siamo messi male. Per fortuna, il calcio sta peggio del nostro Paese. E non parliamo di scommessopoli o delle frequenti inchieste finanziarie, ma di ciò che, in fondo, caratterizza ogni sport: il momento collettivo, il rito imprescindibile della partita. In Italia, ogni domenica – o venerdì, sabato, lunedì, mercoledì… come Signora Televisione comanda – si gioca in stadi vuoti, grigi, vecchi, brutti, addirittura chiusi al pubblico. Perché si è arrivati a tanto? Colpa degli ultras, dicono in tanti. Colpa delle televisioni, ribattono altri. Colpa di tutti, fuorché di chi ha veramente colpa, ovvero di chi questo sistema poteva riformarlo, cambiarlo, o almeno non peggiorarlo. E invece per anni si sono susseguite decine di leggi cervellotiche, demagogiche, inutili e dannose, nel silenzio generale di una stampa (con poche virtuose eccezioni) sempre troppo allineata alle posizioni ufficiali. Così il calcio italiano si è impoverito, e gli stadi hanno perso pubblico e fascino. A porte chiuse è lo sfogo di due tifosi che hanno amato e amano visceralmente l’esperienza dello stadio, ma è anche una vera e propria opera di controinformazione che farà aprire gli occhi (a chi è disposto a farlo) sullo stato comatoso del mondo del pallone. Punta il dito su responsabili e complici di questo disastro, semplicemente mettendo in fila una serie di fatti e circostanze avvenuti negli ultimi anni: dall’introduzione della Tessera del tifoso, strumento utile soltanto a svuotare stadi già vuoti, al famigerato DASPO, inefficace provvedimento lava-coscienze; dalle grottesche ordinanze che vietano le trasferte ai tifosi (compresa quella ai «noti facinorosi» ultras dell’hockey su pista…) agli incredibili casi di mala informazione. Racconta cose che dovrebbero essere note a tutti, ma in Italia non lo sono, visto che da noi si è sempre preferito evitare di parlarne. Perché? Rispondere a questa domanda potrebbe essere il primo passo per avere un calcio (e forse un Paese) migliore.
Lorenzo Contucci
Giovanni Francesio
"Sono nato nel 1970. Sono andato allo stadio la prima volta nel 1976. Non ho mai smesso. Per molti anni sono stato un ultras. Questo mi ha portato a fare migliaia di chilometri di trasferte, a essere coinvolto in scontri con tifosi avversari e forze dell'ordine, a scappare, ad avere paura, ma anche a provare le uniche emozioni collettive della mia vita, a gioire e soffrire insieme agli altri, a sentirmi parte di un mondo "libero e vero" che sentivo e sento ancora mio."
Giovanni Francesio