Un’interessante intervista dell’editor Anna Pastore all’autrice Katharine Dion.
Katharine Dion è un’autrice americana trentottenne al suo libro d’esordio con “Io, dopo di lei”, un romanzo che è stato apprezzatissimo da critica e pubblico: Best Book dell’estate 2018 per Time, Top Book dell’estate 2018 per O, The Oprah Magazine, libro del mese per People, Must Read per il New York Post.
Com’è nata l’idea del tuo primo romanzo, Io, dopo di lei?
Da diverse suggestioni. Quando avevo ventotto anni, sono tornata a casa, in California, dopo dieci anni di assenza. I miei genitori non erano più gli adulti ai quali dovevo chiedere il permesso di usare la macchina ma persone differenti, piene di ansia e paura. Avrei voluto conoscere il loro passato, in particolare quello di mio padre, che aveva sempre parlato poco, e perciò comprai un registratore per intervistarlo. Non ho mai riascoltato l’intervista, soprattutto perché ero concentrata sulla voce del protagonista del mio libro, un uomo sulla settantina, diverso da mio padre ma con le sue debolezze. Nello stesso periodo, una mia cara amica si è tolta la vita e anche il mio dolore per la sua perdita ha influenzato la scrittura. Quando poi mi sono resa conto, parlando con altri suoi amici, di non averla conosciuta del tutto, ho capito anche che il mio ricordo di lei sarebbe stato differente da come avrei voluto. Tutto questo – il dolore, la memoria, la paura – è entrato nel romanzo, anzi è diventato la sua linfa emotiva.
Qual è il tema principale del tuo romanzo?
Innanzitutto l’intimità, e i suoi limiti. Il mio romanzo racconta lunghi matrimoni, amicizie complicate, la sorpresa di scoprire che i figli sono diversissimi da te, la fatica dei figli adulti quando devono prendersi cura di genitori anziani. I personaggi del mio del libro si vogliono bene, però non sempre si capiscono. Questo mistero – che le persone con le quali condividiamo la più profonda intimità possano esserci anche estranee – è il cuore del libro.
Io, dopo di lei esplora anche il desiderio tutto umano di dimostrare a ogni costo che la propria vita ha un senso. È proprio per quel desiderio che il protagonista Gene finge di non vedere le verità che intaccano la sua narrazione di una vita familiare felice. Gene è profondamente convinto che il suo matrimonio con Maida sia stato un successo, e chiunque lo metta in dubbio diventa una minaccia. D’altro canto, non può fare a meno di chiedersi se quella felicità era reale. Allora la vera domanda non è se Gene e Maida sono stati davvero felici, ma se basta l’ombra di un dubbio per incrinare l’idea di felicità.
Qual è il punto forte della tua scrittura?
I personaggi del mio romanzo sono persone normali con problemi normali, capaci di sentimenti profondi e contraddittori. Scrivendolo, volevo raccontare quei sentimenti con la stessa complessità che di solito la letteratura riserva ai pensieri. Volevo raccontarli con un linguaggio semplice, come i miei protagonisti, ma abbastanza ricco da cogliere tutte le sfumature. Gene ha spesso esperienze che vanno al di là della sua capacità di esprimerle a parole, però ne intuisce il senso profondo: per esempio, quando capisce che il dolore per la morte della moglie assomiglia all’innamoramento, o quando ricorda il giorno in cui la figlia ha smesso di vederlo come un padre fantastico ed è diventato un uomo qualunque.
Quali opere hanno influenzato la tua scrittura?
Il linguaggio interiore di Gene viene dalle letture di cui mi sono innamorata da ragazzina e poi da giovane scrittrice. I romanzi di Henry James, Middlemarch, e soprattutto quelli della Woolf, Mrs. Dalloway e Gita al faro riescono a seguire il flusso di coscienza, la sua natura mutevole, disordinata e istintiva, rendendolo autentico. Per me rimangono maestri insuperabili. Per quanto riguarda la complessità psicologica, nessuno scrittore mi ha insegnato tanto quanto Tolstoji. Ha ragione Cechov quando dice che è un modello per tutti gli scrittori. Nella letteratura contemporanea ammiro molto autori come Alice Munro e Marilynne Robinson.