Toni Morrison (Lorain 18 febbraio 1931 – New York, 5 agosto 2019)
Il 5 agosto scorso si è spenta a New York Toni Morrison, una delle più grandi scrittrici americane, autrice di romanzi e saggi nei quali è riuscita a mostrare il mondo, e non solo quello statunitense, da un punto di vista diverso da quello predominante, cioè da quello degli uomini bianchi. Un’impresa straordinaria per una donna nata all’inizio degli anni Trenta in provincia, cresciuta in una società segregazionista e arrivata alla scrittura a quasi quarant’anni. E d’altro canto, Toni Morrison è – difficile usare il tempo passato – una donna straordinaria: prima afroamericana a vincere il premio Nobel per la letteratura, riconoscimento di un lavoro formidabile, potente, di scavo nella storia di un popolo intero. Un lavoro culminato in un libro che si chiama Amatissima, la storia di una schiava in fuga che uccide la figlia pur di sottrarla a un destino simile al suo. Quella di Sethe, la schiava, è una storia vera, una delle tante storie di disumanità che Morrison ha contribuito a disseppellire mostrando i lati oscuri della Storia Americana. Da L’occhio più azzurro, il suo primo romanzo, fino a L’importanza di ogni parola, la raccolta di saggi pubblicata proprio nel 2019, Toni Morrison ha sempre tenuto fede a una poetica della responsabilità: per lei scrivere non è stato un mero atto estetico ma un gesto politico, ovvero un gesto, appunto, di responsabilità sociale. Perché la letteratura è questo: “Moriamo.” Ha detto la scrittrice nel suo discorso di accettazione del Nobel. “Forse è questo il significato della vita. Ma produciamo il linguaggio. E forse è questa la misura delle nostre vite.”
Abbiamo deciso allora di dare seguito all’eredità di Toni Morrison.
Da oggi, 5 settembre, quindi dedicheremo ogni mese uno spazio alle parole della scrittrice, a partire da quelle tratte dal suo romanzo più famoso, Amatissima.
Non era una storia da tramandare.
Così la dimenticarono. Come si fa con un sogno spiacevole durante un sonno penoso. Ogni tanto, però, quando si svegliano si sente cessare il fruscio di una gonna e le nocche che passano su una guancia nel sonno sembrano appartenere a chi dorme. A volte la fotografia di un amico intimo o di un parente — osservata troppo a lungo — cambia e vi si vede muovere qualcosa di più familiare del volto caro che c’è lì. Possono toccarlo, se vogliono, però non lo fanno, perché sanno che se lo facessero le cose non sarebbero più le stesse.
Questa non è una storia da tramandare.
Dietro al 124, vicino al fiume, le sue impronte vanno e vengono, vanno e vengono. Sono così familiari. Se un bambino o anche un adulto vi mettessero i piedi dentro, combacerebbero. Se li togliessero, scomparirebbero di nuovo, come se nessuno avesse mai camminato lì. Ora ogni traccia è scomparsa e ciò che è stato dimenticato non sono solo le impronte, ma anche l’acqua e quello che c’è là sotto. Il resto è il tempo. Non l’alito di chi è dimenticata e inspiegata, ma il vento nei grondoni, o il ghiaccio che in primavera si scioglie troppo in fretta. Solo il tempo. Di sicuro non si sente reclamare a gran voce un bacio.
Amatissima.