Sono stato un bambino fortunato, a otto anni mio padre mi ha portato in Africa e mi ha messo una macchina fotografica in mano. Scattavo in continuazione, lui si lamentava perché allora la pellicola costava tanto…
Ho toccato il mio primo orso polare solo perché era crollato anestetizzato ai miei piedi. Stavo nella baia di Hudson con uno scienziato che ne studiava il comportamento. La pelliccia era bellissima, ma dalla mandibola uscivano denti da predatore a ricordarmi che mi trovavo di fronte all’indiscusso Re dei ghiacci. È così, davanti a questo enorme carnivoro, mi è venuto in mente di raccontare la storia di Nanuk.
Ma un conto è raccontare natura e animali da un’inquadratura, un conto scriverci un romanzo, il mio primo. Ho avuto bisogno del punto di vista di un ragazzo occidentale, Luke il mio protagonista, per far scoprire al lettore l’emozione dell’Artico. E poi ho avuto bisogno di far scoprire l’Artico a mio figlio Corso. Durante la preparazione del film l’ho spedito un mese nelle Isole Svalbard con Doug Allan l’operatore più coraggioso e affidabile che ci sia. Raggiunti da una tempesta sono rimasti in tenda per un’intera settimana.
Il che vuol dire pulire obiettivi fotografici, farsi una zuppa, ripulire gli obiettivi… Alla fine della tempesta hanno lavorato per trenta ore senza sosta, portandoci straordinarie riprese di natura e di orsi per il nostro film. Solo allora si sono messi in viaggio per raggiungere un aereo. Corso è sceso dicendomi: “Se lo sa la mamma che mi hai spedito nell’Artico senza nemmeno un libro…”.
Brando Quilici