ALLA FINE DI OGNI COSA – nascita di un romanzo
di Mauro Garofalo
La prima volta che ho sentito il nome di Johann Rukeli Trollmann avevo appena finito di allenarmi al sacco. Con le mani ancora fasciate e i guantoni, appresi la vicenda del pugile a cui il Nazismo aveva tolto il titolo di campione perché “zingaro”. Per tutta risposta, la volta dopo Trollmann era salito sul ring con il corpo cosparso di farina, i capelli tinti di giallo, si era lasciato battere. Quell’uomo aveva messo in scena la sconfitta dello stesso fanatismo ariano che ora lo crocifiggeva; aveva avuto il coraggio di guardare dritto in faccia il grande male del Novecento. Mi resi conto che quella non era una storia qualsiasi, era una sfida. E dovevo seguirla.
Andai a vivere a Berlino. Molta della storia di Trollmann, che intimamente avevo iniziato a chiamare Rukeli, si era svolta lì. Proveniente dalla comunità sinti di Hannover, si era trasferito nella capitale della Germania alla fine degli anni Venti.
Era tra i ciottoli, le vetrine dei locali in legno, l’acqua che silenziosa scivolava nella semioscurità dei palazzi, che avrei dovuto cercare la sua ombra. I suoi ricordi. Ripercorrendo i passi. Grazie a un amico ebbi l’occasione di abitare in un appartamento nel Mitte, la casa era stata una delle tante requisite agli ebrei durante il Terzo Reich. Tutti i giorni aprivo gli occhi sopra uno dei molti cimiteri che in città hanno funzione di parco. Gli alberi, la pace, il sole dalle finestre. All’altro lato della strada, c’era persino una palestra di boxe, lo interpretai come segno del destino. Per due mesi cercai tracce del ragazzo, echi del pugile, voci dello zingaro. Di una cosa ero certo. Non volevo scrivere la Storia, ma cercare la leggenda.
Tramite il Kulturzentrum Deutscher Sinti und Roma avevo scritto, qualche settimana prima, all’associazione omonima che curava la memoria di Trollmann. Ora, mi rispondevano, erano pronti a incontrarmi a Hannover!
Salito sul treno il pensiero era corso a quanti convogli prima e durante il secondo conflitto mondiale avevano trasportato carichi di morte. Quanti uomini, donne e bambini in nome dell’orrore della superiorità della razza ariana avevano dovuto attraversare quelle terre con, negli occhi, il senso di un’assurda fine. Avevo continuato il viaggio cercando di distrarmi, ammirando il paesaggio: i marroni, l’arancione e il verde dei boschi, ancora non lo sapevo, ma avrebbero formato la tavolozza dei colori con cui avrei descritto l’ultima parte del romanzo.
Ero partito all’alba da Berlino, sarei dovuto arrivare presto a Hannover ma, a metà tragitto, il treno si era fermato. Un’alluvione aveva gonfiato i fiumi nel Magdeburgo; esondando, l’acqua aveva sommerso tutto. Era talmente alta da lambire le chiome degli alberi. Procedemmo a rallentatore per un tempo infinito su rotaie gonfie di fango. Alla fine arrivai con quattro ore di ritardo, non ero riuscito nemmeno ad avvertire. Non avevo un numero di cellulare per le emergenze, del resto chi avrebbe potuto immaginare… Arrivato in stazione, mi ero precipitato alla prima cabina telefonica. Pensavo a chi mi attendeva, a quello che avrebbero pensato: l’ennesimo insolente gagé che si sentiva in diritto di scrivere di un popolo e nemmeno si presentava all’appuntamento. Invece, al secondo squillo, qualcuno dell’associazione mi rispose e, in un improbabile inglese, mi confortò che qualcuno sarebbe tornato a prendermi. Dovevo solo aspettare lì. Così feci. Il mio contatto a Hannover arrivò con il suo SUV dopo nemmeno dieci minuti. Quello che accadde poi è memoria e appunti, rocambolescamente presi su diari che ancora conservo.
Alfonso e sua figlia Diana mi portarono a vedere la palestra dove Rukeli si allenava, il lungofiume dove sorgeva l’accampamento sinti, il punto dove si diceva Johann bambino pescasse direttamente dalla sua stanza nella casa-carrozzone, la chiesa dove si recavano a pregare i Trollmann tutte le domeniche; percorremmo poi le strade nuove del centro, la via oggi intitolata al pugile sinti, la Stazione di Polizia dove venne arrestato e percosso. Vollero offrirmi un gelato, un cappuccino e una torta all’albicocca tra le più buone che abbia mai assaggiato; ospite di quegli zingari di cui così tanto si parla sui giornali, non potei rifiutare, sarebbe stata presa come offesa. Seduti in un bar vicino l’ex palestra di Johann, Alfonso mi fece vedere alcuni libri che erano stati pubblicati in Germania, c’era persino un fumetto. Diana, che studiava all’Università, traduceva la voce roca del padre, le inflessioni di una lingua meticcia a base tedesca che non ero in grado di comprendere. Eppure, l’orgoglio e la felicità cui assistevo mentre Alfonso mi parlava di Johann, non ci fu bisogno di tradurli. Nei suoi occhi c’era la tracotante volontà di riscatto di chi è avvezzo a perdere nella storia, il desiderio di mostrarsi invincibile di chi subisce il compatimento, nella migliore delle ipotesi, la sicurezza esibita di coloro i quali, a vario titolo, nel tempo, sono stati bollati come diversi, confinati ai margini. Emarginati. Chiesi ad Alfonso se c’erano delle foto del ragazzo che era stato Johann, mi interessava l’associazione di lavoratori che gli aveva fatto da palestra. Mi rispose, non c’era traccia. Chiesi di Olga, allora, e della figlia di Johann, Rita che sapevo essere ancora in vita. Dalla risposta intuii che il passato li aveva resi stranieri. Decisi di non indagare in questioni personali, o di altro genere. Per ritegno e perché non stavo inseguendo lo zingaro per chiedergli la carta d’identità. Mi interessava il ragazzo, l’uomo che aleggiava a distanza di settant’anni tra le pieghe dei giorni. Tornai a Berlino con molti elementi in più. Al rientro in Italia, tutto era cambiato. Dopo un viaggio niente è più come prima. Eppure, dopo tutti quei giorni, c’era una cosa che mi angustiava. Rukeli non mi aveva ancora parlato…
A Milano avevo atteso che arrivasse la voce del mio personaggio. Invano erano passate le settimane. Poi, avevo capito. Non dovevo parlare dello zingaro, dovevo scrivere dell’uomo! Nella fretta di andare a Berlino, Hannover, e poi di nuovo tornare, per la smania di inseguire e la furia del cuore, avevo dimenticato il punto da cui ero partito. Il porto da cui mi ero imbarcato. Quella non era la storia di Rukeli o di Trollmann, ma di Johann. Non dovevo usare la retorica degli zingari, formulare giudizi così facili da tradursi in status. Dovevo usare le parole che conoscevo. Le scelte dell’uomo, la boxe. Seguendo gli incontri di quel Gibsy che aveva incantato folle e mandato in delirio il pubblico femminile per la sua sfrontata selvatica bellezza.
Iniziai a dare al romanzo la forma che ha poi assunto nel tempo. Avevo una storia ambientata durante l’ascesa del Nazismo, una vicenda personale che si legava indissolubilmente a quella di un popolo. La fine di una vita come conseguenza delle leggi razziali, il Porajmos – lo sterminio degli zingari – l’ennesimo insulto voluto da Hitler.
Molta grande letteratura aveva raccontato quella Storia, tutti conoscono (e riconoscono) oggi la follia e gli orrori del Nazismo. Nel mio romanzo volevo narrare frammenti, eventi quasi dimenticati che potessero accompagnare la danza sul ring del “mio” campione: l’incendio del Reichstag, l’orribile esecuzione dell’innocente van der Lubbe, le Olimpiadi del ’36 viste attraverso le immagini del film Olympia di Leni Riefenstahl, il crollo delle ultime vestigia di ciò che un tempo era stato il grande Impero prussiano, il cancelliere Hindenburg metafora della caduta dell’epoca degli zeppelin, l’estinzione della Belle Époque.
Sapevo che in Germania, dopo anni, la federazione aveva riconsegnato ai pronipoti di Trollmann il titolo di campione. Ne avevano parlato i giornali, la televisione. Avevo visto un documentario, un mediometraggio, un’intervista a Rita. Anche in Italia alcuni giornali avevano ripreso la vicenda del campione, sapevo di alcune pubblicazioni uscite nei circuiti antagonisti. Ma a Hannover avevo percepito la leggenda familiare intorno al ragazzo chiamato “albero” (questo significa in sinti, Rukeli). Avrei raccontato quella storia cucendo i lembi di una vicenda umana alimentata dalla ricca tradizione orale dei sinti. Potevo basarmi su alcune suggestioni evocate da foto d’epoca: gli ebrei costretti a esibire in strada i “cartelli della vergogna”, Johann panettiere, gli atroci esperimenti condotti dai nazisti; ma allora potevo raccontare anche la bellezza del Novecento, di quell’epoca d’eleganza estinta dall’Olocausto finemente narrata da scrittori come Stephen Zweig, Joseph Roth. Usando la narrativa potevo riunire eventi immaginati e fatti notori (Anna Funder aveva compiuto una scelta analoga narrando di Dora Fabian e Ernst Toller in Tutto ciò che sono) così erano venute in mente le idee per una parabola sui Trentasei, la finta divertita lettera “psicologica” di Mark Weil sull’Anschluss voluta da Hitler.
Ho scritto tenendo a mente tutti i nomi della generazione perduta. Pesando ogni sillaba, cercando la precisione più d’ogni altra cosa. Scoprendo infine che, per me, scrivere non è usare termini difficili quanto riuscire a legare le parole tra loro. Una sintassi personale misurata, pesata in ogni tasto. Una scrittura per indugio, che nel suo procedere porta significati nuovi, parole che ancora non so.
Alla fine di ogni cosa mi ha fatto scoprire il nucleo tematico del mio scrivere. Mi sono reso conto che tutti i miei personaggi raccontano di una caduta che a volte è vertigine, altre solo sogno che s’infrange. Nel caso di Johann, il vuoto era spazio da colmare con il proprio corpo. E non a caso, nel pugilato, “fare il vuoto” si traduce con shadow boxing ovvero tirare pugni all’aria, perfezionando ogni gesto tentando di colpire la propria ombra. Poiché è la lotta con noi stessi che ci porta a essere ciò che siamo. Noi. Le nostre scelte.