“Coltivare la memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza.” Liliana Segre.
Elie Buzyn è un signore di novant’anni, di quelli che ti capita di incontrare e che ti stupiscono con la loro forza: fisica, anche, ma soprattutto morale.
Uno che a settant’anni suonati si è messo a correre maratone e a ha anche acceso la fiaccola olimpica, qui da noi, a Torino. Uno di quelli che vorresti non finissero mai.
Elie, poi, ha fatto il medico, il chirurgo ortopedico, salvando sicuramente tantissime gambe, probabilmente anche molte vite.
In particolare, ha voluto dedicare una gran parte del suo tempo a persone speciali, quelle che in un’epoca ancora troppo vicina erano state considerate razza inferiore, umanità da eliminare. Come lui.
Perché Elie è ebreo e a quindici anni è stato internato dai nazisti a Auschwitz. È scampato alla marcia della morte solo perché sua madre si era fatta promettere che sarebbe sopravvissuto. Ha vagabondato alla ricerca di una nuova patria, perché non aveva più né casa né famiglia. E alla fine ha ricominciato a vivere.
Per tanti anni in silenzio, certe cose hanno bisogno di molta vita per essere raccontate. Finché un giorno, Elie è tornato a Auschwitz e ha deciso che era arrivato il momento di trasmettere la sua memoria alle nuove generazioni. Come quella della nostra Liliana Segre, la testimonianza di Elie Buzyn è un monito contro gli orrori del nazismo – antisemitismo, razzismo, apartheid – ma anche il trionfo di una esistenza piena di significato. Ed è proprio grazie a loro, ai loro sforzi inimmaginabili nel ricordare, che oggi possiamo dirci pienamente umani.
Perché, come ha scritto Primo Levi, “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre”.