LA VISIONE IMPLACABILE DI TONI MORRISON
L’occhio più azzurro, pubblicato cinquant’anni fa, ha tracciato un nuovo percorso nel panorama letterario americano.
Hilton Als, New Yorker 27 gennaio 2020
Prima di chiudere il libro, l’autrice si sofferma su alcuni pensieri finali intrisi di rimpianto, vergogna e orrore. Il libro? Il romanzo d’esordio di Toni Morrison, L’occhio più azzurro, che quest’anno compie cinquant’anni. Alla fine della storia, la povera Pecola Breedlove è stata abbandonata da tutti, dopo essere stata trattata con disprezzo per gran parte della sua vita; ed è rimasta a vagare per le strade in preda alla follia. Spettacolare anche rispetto ad altre opere prime attinenti al gotico – Mentre morivo (1930) di William Faulkner, o La saggezza nel sangue di Flannery O’Connor o L’uomo invisibile di Ralph Ellison (entrambi pubblicati nel 1952) —, Il libro di Morrison ha tracciato un nuovo percorso nel panorama letterario americano, mettendo al centro della storia le giovani ragazze nere.
Come tutti i personaggi de L’occhio più azzurro, Pecola vive a Lorain, in Ohio, dove Morrison, morta lo scorso agosto, era nata nel 1931. Quando incontriamo Pecola, ha undici anni ma è già abituata al dolore. La sua unica fuga dall’abuso emotivo che subisce in famiglia e a scuola è il sogno. E il sogno è questo: che qualcuno, forse Dio, le conceda il dono degli occhi azzurri. Il tipo di occhi azzurri che Pecola ha visto nelle immagini della star del cinema Shirley Temple. Il tipo di occhi azzurri che illuminano il viso della ragazza sull’involucro delle sue caramelle preferite, Mary Janes. Pecola sente, o è stata indotta a sentire, che se avesse gli occhi azzurri, alla fine, sarebbe libera, libera dalla sua imperdonabile oscurità, da ciò che la sua comunità ha etichettato come bruttezza molto prima che potesse guardarsi allo specchio e determinare da sé chi e cosa fosse. Alla fine, Pecola acquisisce o crede di acquisire gli occhi azzurri. Ma in quelle strazianti immagini finali, Claudia MacTeer, la vivace narratrice di nove anni di Morrison, vede ciò che Pecola non può: come la sua follia, il risultato di tutto quel rifiuto, assomigli al resto della città. Nonostante ciò, poche persone, a parte Claudia, testimoniano. Farlo significherebbe riflettere criticamente sulla società che li ha formati e dover cambiare. E la verità è che quando lasciamo Pecola, che raccoglie rifiuti ai margini del mondo, anche noi potremmo provare un certo sollievo nel non dover più vedere ciò che vede Morrison, la sua visione profonda e inesorabile di ciò che la vita può fare agli emarginati.
Morrison ha detto di aver scritto L’occhio più azzurro perché voleva leggerlo. Ha iniziato il libro nel 1965, quando aveva trentaquattro anni. Si è laureata in inglese alla Howard University, dopo di che ha conseguito il Master alla Cornell. Morrison ha continuato a insegnare alla Texas Southern University, e poi a Howard, dove ha lavorato a un racconto su una ragazzina nera che voleva gli occhi azzurri. Il personaggio era ispirato a una bambina che aveva conosciuto in Ohio, che aveva voluto quegli occhi e aveva deciso che Dio non esisteva quando non glieli aveva dati. Morrison mise la bozza in un cassetto e continuò la sua vita. Nel 1958 sposò l’architetto giamaicano Harold Morrison; sette anni dopo, la coppia divorziò e Toni rimase sola, con due bambini e il suo lavoro di editor presso LW Singer, una casa editrice di Syracuse.
La solitudine e il dolore sono spesso i primi strumenti di un’artista, e Morrison si è messa al lavoro ricordando e scrivendo del mondo da cui proveniva: la povertà, le storie di fantasmi che suo padre, un saldatore, raccontava ai figli. In un certo senso, L’occhio più azzurro si basa su quei racconti e onora gli anni in cui, senza saperlo, Morrison si stava preparando a diventare un’artista. Parte del genio di Morrison aveva a che fare con il sapere che i nostri sé feriti sono una manifestazione di una società malata, il corpo malato d’America, il cui malessere razziale continua a produrre Pecole. La puoi trovare ovunque. È la donna dalla pelle scura che cerca di schiarire la carnagione con creme sbiancanti; è quella che si sottopone a un intervento chirurgico per assottigliarsi le labbra o il naso; è la ragazza che indossa lenti a contatto colorate perché il mondo la veda in modo diverso.
Quando sei un bambino, un bambino nero o marrone o giallo o rosso, per lo più non inizi la mattina pensando a come il razzismo ti rovinerà la giornata. Quello che vuoi sapere è chi ti amerà e quali sorprese quell’amore ti porterà quel giorno. È il mondo che porta l’odio alla tua porta di casa ed è l’odio che ti fa nascondere chi sei. Da bambino, ho risposto visceralmente a L’occhio più azzurro, per una serie di motivi, a partire dalla copertina. Morrison, nella fotografia in quarta, sembrava il tipo di persona che la mia famiglia avrebbe potuto conoscere, e se era una di noi significava che forse anche una delle mie quattro bellissime sorelle maggiori avrebbe potuto scrivere un libro. Ora so che la speranza per le mie sorelle era un modo di avere speranza per me stesso, speravo di poter diventare l’artista che volevo essere. Mi sono aggrappato a ogni speranza che ho trovato. Ho sentito la situazione difficile di Pecola nello stomaco, non perché la gente pensava che fossi brutto, ma perché sapevo che, nella mia piccola comunità operaia a Brooklyn, la mia sessualità era considerata brutta. Il mio mondo nero allora (e, per essere sinceri, non è cambiato molto) è definito dalle regole dell’eterosessualità, e una delle poche cose su cui i suoi abitanti erano d’accordo era quanto gli omosessuali fossero spiritualmente abominevoli – nella migliore delle ipotesi, oggetti di derisione. Mi sentivo intrappolato a Brooklyn come Pecola a Lorain. Non avevo un sogno di occhi azzurri, ma sognavo un mondo pieno di cultura e artisti a cui un giorno sarei appartenuto, se, come Toni Morrison, avessi scritto libri.
Morrison aveva trentanove anni quando pubblicò L’occhio più azzurro. Anche se ha affermato in un’intervista del 1981 con Charles Ruas, «Non ho mai voluto diventare una scrittrice, volevo solo diventare un’adulta», è il lavoro di un’artista matura che si è stancata di aspettare qualcun altro per esprimere le proprie opinioni. Nel frattempo, anche la Morrison editor stava guadagnando forza. Quando uscì L’occhio più azzurro, lavorava alla Random House da quasi tre anni. I suoi colleghi non sapevano che era una scrittrice, perché non glielo aveva detto. «Non mi stavano pagando per quello», ha detto una volta. Alla fine, un collega ha individuato una copia de L’occhio più azzurro, e i successivi romanzi di Morrison sono stati pubblicati da Knopf, un imprint di Random House.
Il lavoro di Morrison aveva un obiettivo molto particolare: offrire ai lettori storie di neri, donne e altri personaggi emarginati che non erano stati raccontati prima. Questo desiderio – questa necessità – sembra aver accompagnato Morrison da quando era una studentessa di Howard. Come editor, ha scelto di mettere in evidenza quelle storie. Ora è sorprendente guardare indietro alla gamma dei suoi progetti: un libro sulla cucina del Sud; una storia del Cotton Club; opere di Gayl Jones e Toni Cade Bambara; poesie di Lucille Clifton e di Henry Dumas, ucciso a trentatré anni da un poliziotto della metropolitana di New York City; l’autobiografia di Angela Davis; e, nel 1974, The Black Book destinato, come L’occhio più azzurro, a mostrare vere vite di neri, dalle orribili navi schiaviste del Cinquecento secolo all’America del Ventesimo secolo.
Per me, L’occhio più azzurro e The Black Book, opere di altissima qualità, erano prove tangibili del fatto che essere un artista significava armarsi della verità – da dove vieni e dove speri di andare – e che l’ipocrisia era nemica dell’arte. Morrison mi ha mostrato cosa era possibile.
https://www.newyorker.com/magazine/2020/02/03/toni-morrisons-profound-and-unrelenting-vision